MUM, Summer Make Good (Fat Cat / Self, 2004)

«C’era una volta una bambina che aveva la voce di vetro e abitava in un faro. Le piaceva stare a guardare il mare, immergervi le braccia, stare ad ascoltare il suono dell’acqua; e quando il vento urlava, lei non aveva mai paura: si accucciava vicino alla finestra verde, quella che cigolava sempre, e rimaneva ipnotizzata dal rumore. Nella sua testa, tutto era musica. La bambina giocava spesso con due bimbi troppo alti e un po’ goffi; li trovava buffi, e anche loro sapevano fare un sacco di suoni strani: stropicciavano carta e percuotevano la lamiera delle biciclette abbandonate, ma avevano anche strumenti veri, e creavano ritmi impercettibili schiacciando i tasti di uno strano marchingegno…»

Lo so, scusatemi. Questa dovrebbe essere una recensione e non una favola per bambini, ma ascoltare i Mùm è come immergersi in una fiaba di Andersen, dove tutto è gigantesco e terribile, ma anche innocente e dolcissimo.

Se fossi ligio al mio dovere, vi racconterei di come “Summer make good” sia forse meno sorprendente del suo predecessore “Finally We Are No One” ma mai come in passato riesca a creare un mondo tutto suo; vi spiegherei che la fusione di suoni della natura e ritmi tecnologici che i Mùm hanno creato in queste canzoni è tale da non riuscire a distinguere gli uni dagli altri: un tripudio di crepitii, bleeps digitali, cigolii, distorsioni e vento da rimanere frastornati; cercherei di essere onesto, dicendovi che ad un ascolto distratto queste canzoni sembreranno tutte uguali, ma aggiungerei subito che il gioco è proprio quello di prestare attenzione e di perdersi nei dettagli infiniti del suono; vi racconterei di un’epica che sa farsi minimale nella musica e trasparente nel canto (“Weeping rock, rock”), oppure di tantissimi strumenti che si intrecciano rimanendo gentili e impalpabili (“The island of children’s children”), o ancora di un suono che diventa quasi country (“Small deaths are the saddest”, o di canzoni che danno un brivido di angoscia sottile, come le filastrocche dei bambini (“Will summer make good for all of our sins?”), o di nuovo di una musica che sembra fatta d’aria, in equilibrio perfetto, che si spezzerà al minimo rumore esterno (“The ghosts you draw on my back”).

Potrei raccontarvi tutto questo, davvero. Ma preferisco continuare a credere che “Summer make good” sia una delle favole più belle che qualcuno mi abbia mai raccontato.

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