ANIMAL COLLECTIVE, Sung Tongs (Fat Cat, 2004)

Una delle caratteristiche della musica contemporanea è quella di basare la propria genesi sull’iper-produttività, immagine speculare di un mondo ansiogeno dominato dalla furia di arrivare (dove, è un mistero che temo resterà eternamente insoluto): gli Animal Collective non fanno eccezioni e continuano a sfornare album a ritmi folli.

A pochi mesi di distanza dallo splendido “Here Comes the Indian” ecco dunque questo “Sung Tongs”, ultima creatura partorita dalle menti schizoidi di Panda Bear e Avey Tare. L’ossessivo incedere di “Leaf House” rimanda ancora a quella fusione fra le radici folk, i ritmi tribali e una psichedelia drogata che è il marchio di fabbrica del duo, ma rispetto ai lavori precedenti il tutto sembra racchiuso in un’ottica più quadrata, meno aperta a totali voli free form o a pindarici balzi verso mondi sconosciuti.

L’amore per la materialità della terra si fa largo in molti episodi, dall’elegiaca sferzata chitarristica di “Who Could Win a Rabbit” alla ballata per chitarra e percussioni ossee “Winters Love” fino a quella “Good Lovin Outside” che mescola accordi à la Barrett a una voce dolente, mentre in sottofondo si fanno strada rumori, riverberi e clangori inusitati. Così come il suo predecessore era apparso come una caduta libera nel Maelstrom, nel magma musicale, da cui usciva fortificato e inattaccabile, “Sung Tongs” è un canto di lavoro, ineluttabile e dolente, riflessivo e decadente.

Gli scherzi e quell’aria da avanguardia ludica che era uno dei punti di forza del combo sono rintracciabili solo in alcuni episodi, tra l’altro tra i più riusciti del lotto: la snervante “Kids on Holiday”, l’irresistibile festa deforme messa in scena in “Sweet Road”, la percussiva “We Tigers” che mescola timbriche baritonali, urli in falsetto, melodie di sottofondo, cori da osteria, in un crescendo emozionale dal quale sembra fuoriuscire una “Cellular Song” dell’Incredible String Band in versione a cappella o una delle pazzoidi ed estemporanee espressioni musicali di cui fu maestro David Peel.

Pur lontani dalla compattezza e dallo splendore formale di “Here Comes the Indian” sembra impossibile non parteggiare per questi ragazzacci, che sfornano comunque almeno un brano capace di far realmente gridare al capolavoro: ascoltare “The Soft Test Voice” per credere. Il resto è in parte maniera, in parte ipotesi per un futuro sempre più lontano dalle onde cosmiche del panteismo e della psichedelia e più attaccato, oserei dire abbarbicato, alle radici tribali e sonore della terra di provenienza. “Sung Tongs” è, in definitiva, l’album minore di una band che è cosa buona e giusta tenersi stretti. Per capire come anche quella che chiamiamo libertà spesso non è altro che una gabbia un po’ più larga: il collettivo animale spesso, anche nel lavoro meno riuscito, riesce a evadere dalla gabbia più larga.

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