MARC AND THE MAMBAS, Torment & Toreros (Some Bizarre, 1983)

Il Marc che compare come autore insieme ai suoi “Mambas” è Marc Almond, mente creativa di quei Soft Cell che proprio all’inizio degli anni ’80 propongono un raffinato synth-pop il cui apice verrà raggiunto in “Non Stop Erotic Cabaret”, trinato verso il successo dallo splendido singolo “Tainted Love”.

L’avventura con i Mambas è dunque l’occasione per Almond per spaziare in campi musicali estranei all’esperienza Soft Cell: dopo aver partorito “Untitled”, album nel quale brani originali convivono con riprese del repertorio di Syd Barrett e altri, tra i quali Jacques Brel e Lou Reed, ecco venire alla luce il capolavoro. “Torment & Toreros” è un affascinante viaggio all’interno dei codici stessi della musica latina, come dimostra in maniera lampante l’intro, affidato ad una chitarra – suonata da Matt Johnson dei The The – e ad un pianoforte dalla chiara influenza spagnoleggiante, o come dimostra la rilettura di “The Bulls” di Brel, divisa fra reminiscenze d’operetta, crescendi alla Kurt Weill e spezzata dai fragorosi “Olé” dei cori, col testo che pone in parallelo le uccisioni dei tori nelle arene con le migliaia di morti delle devastazioni umane del novecento.

La maggior parte della struttura sonora è affidata al pianoforte e agli archi, con divertiti riferimenti classici – il Beethoven che fa capolino nell’incipit di “In My Room” – e scale in continuo crescendo emozionale. A donare un’aura sorprendente ai brani è la voce di Almond, tra le più espressive e calde che vi capiterà di incontrare: il modo in cui declama “Animal in You”, circondato da riverberi di flamenco destinati a crescere d’intensità, è una delle esperienze vocali più vicine al romanticismo che la musica contemporanea ci abbia regalato.

Molti i sono gli apici di questo percorso, ma come non ricordare la danza liberatrice e aulica di “First Time”, dove gli archi esplodono in tutta la loro grazia e gli accenni di chitarra si sposano con un sassofono sommessa? O il pathos malinconico sprigionato dalla scarna e sussurrante “My Former Self”? O ancora la follia ansiogena di “Untouchable One”, dove la calma lascia il posto a rumori, rintocchi, voci spettrali, sospiri, singulti, una chitarra ectoplasmatica e una base ritmica cupa e ossessiva? Anche se forse nulla di tutto questo può superare la complessità compositiva del medley che ospita “Narcissus”, “Goomy Sunday” e una “Vision” ripescata dal repertorio di Peter Hammill: quasi dodici minuti nei quali si susseguono sprazzi di jazz per sassofono, riffs catacombali, un organo pacificante, vuoto di suono quasi totale, rintocchi delicati, un flauto pastorale, archi enfatici.

Più vicini alla scena musicale dei Soft Cell episodi come “Torment” (sicuramente una delle più belle creazioni dell’intera carriera di Almond), “Boss Cat”, “Black Heart” – che all’epoca fu editato come singolo -. A chiudere l’album arriva “Beat Out That Rhythm on a Drum”, che si apre come emblema alla percussione e diventa un omaggio a Bizet, sicuramente uno dei compositori classici più vicini allo spirito tzigano, lo stesso che pervade questo pezzo e l’intero album. All’epoca della sua uscita “Torment & Toreros” andò incontro ad un sonoro insuccesso, troppo lontano da quello che il pubblico identificava nel nome Almond, troppo distante dall’ovvio, dalla moda. E appare tuttora avulso a qualsiasi basilare storia del rock questo lavoro, microcosmo a parte, non rapportabile a nessuna epoca, e forse per questo ancora più grande ed importante.

Un album che attualmente è quasi impossibile da reperire, edito in cd solo nel 1997, quasi subito esaurito e mai più ristampato. Che questa recensione si tramuti in supplica verso chi ha in mano il destino di “Torment & Toreros” mi pare cosa ovvia e scontata. Ma, temo, inutile.

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