FUCK, Those Are Not My Bongos (Homesleep, 2003)

Il più buffo e confuso tra tutti i gruppi americani è uscito da qualche tempo con un nuovo disco dal solito titolo bizzarro. Da dieci anni a questa parte abbiamo imparato ad amare quei folli dei Fuck, quattro musicisti che hanno passato il loro tempo trafficando con brani bizzarri, registrazioni che hanno un sapore quasi amatoriale, curandosi poco o nulla di raggiungere un successo che non interessa a gente come loro.

In dieci anni hanno costruito una manciata di dischi interessanti, questo sì, ma tra tutti i gruppi seguaci della bassa fedeltà i più marginali e i più restii a raccogliere un minimo di popolarità sono stati loro. In fondo già il nome che si sono scelti chiarisce senza dubbi la loro intenzione di restare nell’ombra. Si direbbe che siano troppo pigri e troppo disinteressati agli affari per affermarsi davvero.

Ecco dunque “Those are not my bongos”, registrato tra il loro quartiere generale a San Francisco e lo studio di Ancona degli amici Yuppie Flu, un disco dei Fuck al loro meglio. Che vuol dire capace di offrire brani in cui le melodie stanno in bilico su pochi accordi di chitarra e tastiera, le eccellenti “Motherfuckeroos”, “No longer whistler’s dream date” e “Firing squad”, piccole gemme di pop obliquo, memori delle pagine migliori dei Pavement e della svagatezza del Beck degli esordi. Salvo poi immergersi in un breve frammento di jazz stralunato, “Jazz idiodyssey”, e di seguito in quattro ballate spoglie per voce, chitarra e poco altro.

Giusto qualche tocco di tastiera e qualche rumore di sottofondo, in canzoni preziose talvolta lievi e sognanti, “Her plastic acupuncture foot” e “Hulk baby”, ma anche profonde e pensose, “Vegas” e “A conversation”, resa più grave dall’intervento di un violoncello.
Poi ecco ancora piccoli schizzi di melodie ciondolanti, “A vow” e “Table”, e due minuti di pura tensione e adrenalina degni dei migliori Strokes, “Hideout”.

Questi sono i Fuck, capaci di stupire e poi di comporre una tra le più tenere e bislacche canzoni d’amore ascoltate ultimamente, “How to say”, un prodigio suonato in punta di piedi con chitarra e piano.
Per questo è così facile cedere al loro fascino sgangherato, sperando che per una volta questo non sia solo un altro disco destinato a pochi appassionati.

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