MICROPHONES, Mount Eerie (K Records, 2003)

Ipotesi: Phil Elvrum è un genio, di quelli con la G, la E, la N, la I e la O maiuscole.
Tesi: Appena due anni fa, all’uscita di “The Glow Pt. 2” si era inserito il suo nome in un’ipotetica scuola di pensiero che cercava nuove vie di fuga per l’acustica. “The Glow Pt. 2” risultò essere uno dei migliori album di quell’anno. Nessuno o quasi, recensendo quel capolavoro badò al fatto che il Phil Elvrum a capo dell’operazione era lo stesso che faceva parte degli Old Time Relijun; già questo avrebbe dovuto far capire molte cose.

Passati due anni, tutto quello che doveva essere capito esplode in maniera a dir poco deflagrante in questo “Mount Eerie”: e non è che lo faccia di nascosto, anzi. Per comprendere ciò che sto dicendo basterà togliere la plastica dal cd, inserirlo nel lettore e far partire la prima traccia: sporcizie elettroniche che vengono interrotte, di tanto in tanto, da boati in lontananza (come una nave che passa all’orizzonte e lancia il suo richiamo aritmicamente). Le sporcizie aumentano d’intensità fino a quando non vengono risucchiate da un sabba percussivo che prende via via sempre più forza, incessante e perturbante, maniacale, spezzato solo da solitari rigurgiti orchestrali che appaiono come lamenti di un mondo sotterraneo che non ha ancora la forza per venire definitivamente in superficie.

Superficie dominata dalla perdita di coscienza tribale, che perdura fino al decimo minuto, dove Elvrum intona una melodia instabile, incerta, accompagnato da una chitarra ancora più indecisa di lui e sovrastato da rumori improvvisi. Melodia del non percepibile, del non eterno, del non tangibile, eppure così carica di delicatezze e di calma pacificante da imprimersi nell’anima in maniera pericolosamente indelebile, con Elvrum piccolo uomo gentile che con la sua voce cerca (invano?) di combattere il mondo di rumori abissali che gli si sta costruendo intorno secondo dopo secondo e che nell’ultimo minuto mostra tutta la sua furia distruttiva, travolgendo ogni cosa sul suo percorso, compresa la voce di Elvrum che ora si va spegnendo in stonature dimesse e distruggendosi nel rumore.

Da questo rumore nasce la seconda traccia “Solar System”: è forse arrivato il momento di dirvi che quella forma di arte che ho descritto lungamente prima dura diciassette minuti e qualche scampolo di secondo e si chiama “The Sun”. State iniziando a farvi un’idea? Bene, procediamo.

“Solar System” è una ballata folk, molto meno pacificante e ottimista di quanto possa sembrare ad un primo ascolto, con i rumori ovattati che continuano ad apparire di quando in quando nella loro tragicità cosmica. Tamburi funebri in controtempo fra loro accompagnano l’acustica in “Universe”, che sembra riprendere il sopravvento – addirittura una batteria a scandire il tempo in perfetto stile folk e voci femminili di contorno! -, ma è solo un abbaglio. La pace acustica è nuovamente deturpata, il ritmo si fa più incessante acuendo al suo interno la componente catacombale, la voce è ora straziante, e il tutto si dissolve in un lungo loop che domina, relegando in sottofondo il resto.

La title-track è un’altra suite sconvolgente; anche qui gli elementi con cui ci si confronta sono le memorie tribali, il contrasto tra cantato e rumori (qui ancora più forte, dato che per tutta la prima parte il cantato è solo, senza nessun appoggio melodico da parte della strumentazione), la caduta frenetica in un mondo industriale paranoico e devastante, e la struttura classica della ballata acustica che viene deturpata da elementi esterni (batteria in controtempo, basso stridente): le intuizioni di Elvrum sono di una maturità tale da lasciare sbalorditi, la sua carica eversiva unica – raramente si era assistito ad un attacco così cosciente alla società umana, attacco basato esclusivamente sull’arte del contrasto. Anche questo pezzo finisce nel rumore e di conseguenza anche il pezzo seguente, il conclusivo “Universe” (sì, esatto, due titoli uguali) si apre nel rumore. Rumore che diventa elegia ecclesiastica, sporcata da boati stonati, fiati senza forma e voci monotone. E questo universo si conclude così, mestamente, senza clangori inutili, senza crescendo emozionali. Così, quasi senza speranza.

L’ipotesi posta in principio a questa recensione era che Phil Elvrum fosse un genio. Il risultato della tesi ne è semplicemente la conferma; abbiamo indubbiamente davanti a noi una delle menti più brillanti di tutti i tempi. Potrebbe essere presto per dirlo, ma intanto io lo dico. Così, per sicurezza…

“Mount Eerie” è uno dei più grandi album che possiate avere la fortuna di incrociare in questo posto sbilenco e zampillante che chiamiamo Universo, senza dubbio.

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