BOB DYLAN, Time Out Of Mind (Columbia, 1997)

Avete presente quei pub fumosi, con le luci soffuse pieni di gente di mezza età che si trovano nella provincia americana? Bene allora avete una certa idea per l’ideale locazione di questo fantastico disco blues di Bob Dylan. Il blues appunto, quella musica del diavolo che tanto fece scalpore con i suoi primi vagiti attorno agli anni 40.

E’ un blues d’annata quello propostoci dal menestrello, senza fronzoli o contaminazioni da altri generi musicali: blues puro, verace, sporco, trascinato più che cantato, sofferto. Canzoni emblema del disco sono indubbiamente l’iniziale “Love Sick”, aggiornamento riveduto e corretto allo stile classico dei blues della desolazione tanto famosi per Dylan, e la finale cavalcata senza fine (16 minuti!) di “Highlands” uno dei punti più alti del lavoro, dove la voce del nostro è il quinto strumento dopo chitarre, contrabbasso, batteria ed organo.

Non mancano però alcuni punti romantici dove Dylan ci propone le sue classiche ballads: innanzitutto “Standing In The Doorway” (la cui unica pecca, rinvenibile in una così soffice melodia retrò ed un songwriting come al solito impeccabile, è forse un’eccessiva monotonia), la pianistica “Make You Feel My Love”, la classica (violino e armonica in evidenza) “Tryin’ To Get To Heaven”, per finire con l’immancabile gioiellino del disco quella “Not Dark Yet” dall’assolo chitarristico finale davvero di disarmante bellezza.

Dicevamo appunto di un blues verace di spaventosa originalità pur nella sua fedeltà agli stilemi classici; le contaminazioni a ben vedere ci sono, anche se ben mascherate, a partire dalle taglienti chitarre elettriche del pezzo probabilmente più duro (se così è definibile) “Cold Irons Bound”, o le vaghe atmosfere reggae che si respirano in “Can’t Wait”.

“Million Miles” è un altro pezzo che vale il disco con quella sua sonorità da scantinato, quei suoi piatti appena sfiorati a scandirne il ritmo, quell’organo a pompa lento ma costante come il battito del cuore di un grosso animale. Nel complesso con “Tme Out Of Mind” assistiamo davvero ad un tempo fuori da qualsiasi memoria storica perché l’originalità di Bob Dylan scavalca ogni possibile recriminazione di aver composto un disco che sa di già sentito.

Non possiamo che inchinarci ancora una volta davanti a delle sonorità così avvolgenti, così cool che immergono l’ascoltatore in una dimensione desolante ma calda. E dobbiamo riconoscere a Bob di avere qui dato prova di essere oltre che un grande cantautore, un vero e proprio musicista di grossissima levatura che nulla ha ad invidiare ai mostri sacri dello storico blues americano (New Orleans per intenderci); merito tutto ciò anche della raffinatissima produzione di Daniel Lanois.

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