BOB DYLAN, Desire (Columbia, 1976)

A metà degli anni settanta Dylan sembra ritrovare la vena perduta più o meno dieci anni prima: nel 1975 esce “Blood on the Tracks” e l’anno successivo, nel 1976, vede la luce questo “Desire”. Dylan ha ricominciato a frequentare le vecchie conoscenze del Greenwich Village, di tanto in tanto fa una capatina nei fumosi locali che lo accolsero all’inizio degli anni ’60 e acclamarono come menestrello dell’era moderna.

Dopo la sbornia country che aveva accompagnato il finire degli anni ’60, con album mediocri e datati, Dylan sembra rendersi conto di quali siano le sue reali radici, la Grande Mela, la metropoli che lui, con i suoi occhi in parte ancora adagiati sulla piccola provincia, riesce a descrivere senza abbellimenti inutili.

“Desire” è registrato in presa diretta, suonando per pochi giorni con una band dove abbondano archi e strumenti acustici: nel brano di apertura “Hurricane” si fanno sentire le congas suonate da Luther. Ed è proprio “Hurricane”, torrenziale presa di posizione contro le ingiustizie sociali e razziali, atto d’accusa fermo e risoluto verso la polizia e i tribunali statunitensi a mostrare il volto tornato bello del cantautore di Duluth: nella storia, vera, di questo pugile incastrato e arrestato solo perché di colore nella democratica America, c’è tutto lo spirito contestatario di Dylan, tutta la sua sete di giustizia, tutta la sua statura di capopopolo. Come quindici anni prima: nulla sembra essere cambiato.

Ma il Dylan di “Desire” si porta dietro anche le contraddizioni degli ultimi sette anni, e non tutto nell’album suona in maniera coerente. I testi sono scritti in coppia con Jacques Levy, apprezzato commediografo, e non sempre le due penne riescono a collaborare in maniera convincente. Dylan si riserva di scrivere da solo “One More Cup of Coffee”, dall’incedere duellante ed epico e la conclusiva “Sara”, semplicemente una delle più belle canzoni d’amore che siano mai state scritte, dedicata a quella che era, all’epoca, la consorte del menestrello: potrà essere solo un caso, ma a parte la già citata “Hurricane” sono proprio questi due i brani che elevano il livello dell’album, che per il resto vola più in basso, senza mai scadere, ma incapace di raggiungere le vette di questi tre brani.

Il Dylan degli anni ’70 è un Dylan trasformista, a tratti inadatto a sé, forse ancora in parte schiacciato dal proprio passato ma orgogliosamente deciso a combattere per mantenere la propria dignità intellettuale. E’ già un’icona, comunque: Allen Ginsberg, al quale si ispirò per la stesura del testo di “A Hard Rain’s Gonna Fall”, gli regala un blocco di note scritte di suo pugno su di lui. Raramente alta letteratura e alta musica sono state così vicine da compenetrarsi.

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