MOTORPSYCHO, It’s A Love Cult (Stickman Records/Self, 2002)

Difficile porsi davanti all’ultimo lavoro dei Motorpsycho e rendersi conto di doverlo criticare. Eppure anche i lavori sporchi vanno eseguiti, e dunque…procedo.

“It’s a Love Cult” è un album estremamente deludente, su questo ci sono pochi dubbi. Deludente per i contenuti, non certo per la forma, che è come al solito avvolgente, calda e profonda.

La band dimostra di continuare sulla strada già tracciata con “Let them Eat Cake” e soprattutto con “Phanerothyme”: una musica che si riallaccia alla tradizione psichedelica degli anni ’70 e al pop del decennio precedente. Facile quindi ritrovare nelle onde sonore della band norvegese tracce di Soft Machine, Pink Floyd, Van der Graaf Generator, Genesis, che i Motorpsycho omaggiano con le loro oramai celebri aperture strumentali, istanti sonori che squarciano il silenzio e invadono l’aria (come il crescendo finale di “Carousel”, lungo brano che ricorda all’attacco il Nick Drake di “Bryter Layter” e si conclude, dopo sette minuti, in un’esplosione musicale degna della mente di Peter Hammill).

Cos’è allora che non funziona nell’album? Il già sentito…ma non riferito alle matrici musicali della band, che i tre di Trondheim hanno oramai fatto interamente loro, tanto da rendere perfettamente riconoscibile lo “stile Motorpsycho”. No, il problema risiede nella mancanza di novità rispetto ai lavori precedenti.

Il suono è lo stesso di “Phanerothyme”, niente di più e niente di meno, magari solo leggermente più corposo, come nella sincopata – ma in fin dei conti banale – “What If…” o nella caustica e urticante “One more Daemon”, che si riallaccia al passato meno recente della band, quando in quattro anni furono capaci di sfornare tre album come “Demon Box”, “Timothy’s Monster” e “Angels and Daemons at Play”.

Un passato che inizia a farsi lontano in maniera preoccupante, offuscato da questo “It’s a Love Cult” e in precedenza da “Phanerothyme”, nel quale si riscontrava la stessa voglia di suonare – che produce i celeberrimi live della band – e la stessa mancanza di ispirazione.

Sembra quasi che i Motorpsycho si trovino in un limbo, blanditi dagli splendori di un tempo, ma incapaci di innovarsi e dunque costretti a ripetersi. E, pur ammettendo la grandezza e lo splendore dell’esecuzione (perché fa comunque bene al cuore un album così ben suonato), rimane una fastidiosa impressione di noia.

E poi resta la voglia di immergersi in quei viaggi psichedelici che la memoria ancora ricorda bene (a proposito: per la prima volta ho l’impressione che i Motorpsycho non abbiano molto ben badato alla sequenza dei brani), e che mancano in questo album farcito di pezzi da quattro minuti, magari resi anche pesanti dalle sovraincisioni orchestrali.

Splendida eccezione è “The Mirror & the Lie”, viaggio in un’altra dimensione, viaggio ovattato, fluido, emozionale e quasi impercettibile nel suo intimismo. Da solo vale l’ascolto di questo album sofferto (per me, non per loro), imperfetto, sbilanciato (ma non poteva essere evitato un brano come “Serpentine”?). Mi sono perso anche la tournée in Italia…avrei potuto almeno rifarmi gli occhi. Bah…

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