PETER GABRIEL, Up (Virgin/Real World, 2002)

È stato scritto che “Up” non è un brutto disco, ma che risente quasi di un eccesso di cura: troppo ‘pensato’, insomma.

Posto che i ritmi di creazione sono affare personale e regno incontrastato della relatività (e della insindacabilità), ciò che invece colpisce di “Up” – così come di “Ovo” – è la persistenza, nella musica di Gabriel, dell’elemento più melodico e ‘popolare’ accompagnato a quello più sperimentale, fusi con la solita rara perizia.

Siamo agli antipodi di un’opera di laboratorio: perché la ricerca è sempre stata connaturata nel musicista britannico, spontanea come in pochi altri. E spontaneo è Up, come spontaei erano i Genesis del tempo che fu, grintosi e delicati, mutevoli e multiformi come la voce del loro cantante. Tutto questo ritroviamo ancora adesso, in un’opera che ha il placido charme del suo autore, il lento ma imponente scorrere di un largo fiume in pianura, la sicurezza di chi non ha l’assillo di produttori e casa discografica, di chi fa musica da ascoltare, non da vendere: di nuovo come i Genesis, o i Van der Graaf Generator.

Sembra quasi di risentire certi rimproveri di allora, quando scrivere canzoni rock con più di due accordi o testi un po’ più complessi e raffinati del solito veniva imputato ad elitarismo e virtuosismo fine a se stesso. Sotto diverse spoglie, un po’ camuffati, certi luoghi comuni rispuntano come i funghi.

Autentico erede, dalla fine dei settanta in poi, della vitalità e originalità della sua vecchia band, Peter Gabriel lo è in realtà – insieme a pochi altri – anche dello spirito di ricerca che aveva animato le migliori formazioni del prog: non si è mai appiattito nella nostalgia e nel ricordo, ma nemmeno si è mai fatto catturare dalle mode del momento; non si è, infine, chiuso nel vertiginoso ma esasperato e ripetitivo sperimentalismo tecnicistico, da esteti dello strumento, che contraddistingue ormai i King Crimson.

Non è David Bowie, dominato dalla fregola della continua novità, del sorprendere per il sorprendere, non è come i Radiohead, che dopo l’ottimo, estenuante “O.K. Computer” si sono lanciati nella pregevole ma finta avanguardia – molto più tradizionale dell’apparenza – di “Kid A”: Peter Gabriel ha, molto semplicemente, uno suo autentico stile. E, credete, non è una banalità. Perché per stile noi intendiamo la varietà sotto un comune denominatore. Prova ne sia la tenuta di “Up”: regge tutti i suoi sessantasei minuti, senza un cedimento.

Un piccolo mondo a sé, dove si sublimano i generi del rock, dal pop alla dance alla world music (c’è perfino la bossa nova di “No Way Out”!), in un superiore distillato dal sapore unico, dove l’elettronica non soffoca, ha il volto umano e cordiale del pianoforte: programmazioni e Bösendorfer. Già “Ovo” era così. L’uomo, la voce, è la stessa che cantava “Seven Stones” o “Dancing with the Moonlight Knight”, “Time Table” o “The Lamb…”: pezzi che tornano alla mente in certi momenti, perché la fiammella che cova, sotto sotto, è sempre la stessa.

“The Drop”, duetto pianoforte-voce che chiude l’album, da sola, varrebbe l’acquisto; ha il sapore buono e malinconico di grandi cose passate ancora ben presenti, che non muoiono e si rinnovano; quel canto flebile e tremolante è come un saluto per l’ascoltatore, una ninnananna cantata in un soffio: forse il brano più spontaneo e semplice, quasi spiazzante, che ci sia capitato di sentire ultimamente: e certamente non ha richiesto anni per essere perfezionato.

Per il resto è arduo scegliere il meglio: tirando a sorte, indichiamo, fra le altre nove ampie tracce – e lasciando da parte per comodità il gabrielianissimo singolo “The Barry Williams Show” – la possente “Darkness”, “Sky Blue” e la distesa (dà un po’ il ‘la’ a tutta l’opera) “I Grieve”, matura espressione della complessa semplicità dell’autore, dove l’accelerazione ritmica centrale – e la corrispettiva modulazione melodica – si innestano morbidamente e con splendida naturalezza, dando vita ad un episodio di classica ed epica compostezza, un ineffabile blues del futuro.

La band comprende i fedelissimi Manu Katche alla batteria, Tony Levin al basso e David Rhodes alle chitarre. Delle tastiere (fra cui il mellotron in tre tracce) si occupa pressoché ovunque l’autore.

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