Blindosbarra: rabbia funk. L’intervista

Abbiamo realizzato l’album più Blindosbarra che i Blindosbarra abbiano mai realizzato”.

Così Vittorio Dellacasa, virtuoso bassista, produttore e leader dei Blindosbarra, ha delineato il quarto lavoro della band genovese – uscito nei negozi lo scorso luglio.

Curioso il titolo scelto per l’album: “Blue Monday People”. Curioso perché dietro questo titolo ci sono tante storie, tante interpretazioni, tanti riflessi. I “Blue Monday People” sono quelli che hanno appena trascorso un weekend di eccessi e divertimento, e il lunedì mattina si svegliano in “hangover” da alcool e stravizi, con la malinconia di chi si rende conto che la festa è finita, mista alla soddisfazione di avere vissuto due giorni da leoni.

Allora Vittorio, dopo 3 anni di silenzio ecco un nuovo album meno elettronico, più “caldo” e carico di groove. Soddisfatto del prodotto?
“Sì, volevamo un disco funk ed abbiamo realizzato il nostro album più funk. L’elettronica è stata messa da parte a tutto vantaggio del suono “vero”. “Blue Monday People” è un disco composto da 11 tracce che ci rappresentano appieno”.

Sul nuovo album non ci sono brani in genovese…
“Già, è tutto scritto in italiano ed in inglese. Abbiamo preferito scegliere questa strada per tentare di dare respiro al nostro prodotto anche all’estero”.

Mi confermi la notizia che farete 3 dischi nei prossimi 3 anni?
“E’ vero. E non a caso stiamo già lavorando su del materiale nuovo”.

Voi dal vivo siete travolgenti, l’idea di fare un disco live vi stuzzica?
“Nei nostri progetti c’è anche quello di dare alle stampa, molto presto, un disco interamente registrato dal vivo”.

La copertina di “Blue Monday People

Con la Virgin, la vecchia etichetta, avete avuto un rapporto turbolento. E’ vero che vi ha sempre… “consigliato” di non cantare in genovese? Motivo: dialetto poco… “commerciale”.
“E’ vero. Ed è anche per questo che abbiamo deciso di renderci indipendenti cambiando etichetta”.

Il napoletano sì, il genovese no. Perché è così difficile proporre in Italia testi in genovese?
“E’ semplice: il napoletano è una lingua universale, ormai… “esportata” in tutto il mondo; il genovese no. Comunque resta il fatto che le proprietà fonetiche e musicali del nostro dialetto sono eccezionali”.

Genova che città è per fare musica?
“Genova è una stupenda musa ispiratrice. Racconta sogni e ti aiuta a raccontarli. E’ pessima però per praticare la musica, nel senso che non ti permette di vivere di essa. Genova, purtroppo, è una città povera di quelle figure capaci di dare slancio ai prodotti discografici. Ci sono piccoli promoter coraggiosi, ma mancano etichette, non ci sono editori, non c’è una tv nazionale, non ci sono giornali musicali capaci di farsi apprezzare su tutto il territorio italiano. Questi sono i limiti della nostra città”.

Voi avete fatto un album bellissimo (“La Memoria” con la produzione di Ben Young) che ha avuto delle ottime critiche all’estero ma che è passato inosservato in Italia: perché?
“Perché siamo genovesi ed abbiamo delle facce… particolari, abbiamo facce da… “camalli” (sono gli scaricatori del porto, N.d.A.), e questo senza dubbio non aiuta a vendere ed a farsi apprezzare in certi circuiti. Comunque sono molto orgoglioso di quell’album: siamo usciti quando nessuno ancora conosceva il “suono di Bristol” ed i milanesi Casino Royale avevano appena segnato la scena con l’album “Sempre più vicini”. Insomma, per certi versi siamo stati dei precursori del genere nel nostro Paese”.

Il G8 cosa ha rappresentato per Genova? Come l’hai vissuto?
“Non mi va di esprimermi su questo argomento: io sono un musicista e faccio musica. Comunque ho tanta rabbia dentro…”. Rabbia funk.