THE JUNIPER BAND, …Of Debris And Daylong Dreams (Suiteside, 2001)

La Juniper Band, fondatasi nel 1999, riceve i primi riconoscimenti da live nell’area musicale bolognese. Nel 2001 l’esordio discografico, mixati e registrati a Senigallia da David Lenci e Andreas Venetis. Esordio sorprendente: già dall’attacco di “Mrs. Angelight” si nota come il gruppo sia capace di scavare alle radici di un’identità musicale, quella underground, trovando una propria via espressiva e lasciando libera una musica fluida, dolce, raffinata, che spazia dai Blonde Redhead ai primi R.E.M., dai Motorpsycho agli Air di “Virgin Suicides”, con un accattivante gusto per la melodia.

Il gentile arpeggio di “So Sober Liberation” anticipa il ritmo cadenzato della batteria e del basso per condurci in un pop spaziale confermato dalla successiva “Get Off the Van”, più dura, sincopata. Un arpeggio che ricorda in maniera incredibile “Trafitto” dei CCCP e il moog in sottofondo accompagnano l’incedere etereo di “Back to Start” prima che esploda il ritornello. Solito attacco di chitarre per “Every Single Day”, solito seguire della batteria, solito incedere del canto – che ricorda certe voci dell’indie rock statunitense, come quella di Ted Stevens dei Lullaby for the Working Class – solito dilatarsi della musica, spandersi, perdersi.

Forse alla fine il gioco diventa un po’ ripetitivo, ma non è inevitabile per un gruppo all’esordio? Un germe psichedelico lasciato crescere nelle nevrosi della società moderna, fra distorsioni e moog, che non rinuncia alla propria indole ma accetta il compromesso e si perde nei sottosuoli di una musica figlia della no-wave e del rock indipendente. Un mescolarsi di derivazioni che crea un suono meticcio e affascinante, magari non sempre originale, ma che lascia intravedere un futuro luminoso, come dimostra la “postfazione”, sorta di Ghost Track che intesse una trama soffice e saluta l’uditorio in un brusio meccanico.

Anche se rimane, a mio parere, una grave pecca: perché cantare in inglese? Quando ormai è stato dimostrato ampiamente come la lingua italiana possa adattarsi al rock, perché insistere nel cantato inglese? Perché tornare indietro di trent’anni, quando il rock era prerogativa di voci anglosassoni o al massimo di traduzioni – “La risposta” al posto della storica “Blowin’ in the Wind” – e annullare tutto ciò che hanno cercato di insegnare gruppi come CCCP, CSI, Afterhours, Marlene Kuntz?

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *