LED ZEPPELIN, In Through the Out Door (Swan Song, 1979)

Permettetemi una divagazione personale: quando ci siamo spartiti gli album dei Led Zeppelin da recensire, il sottoscritto è stato così scemo da farsi soffiare tutti e quattro i primi, amatissimi album; ma questo non è nulla, in confronto al dover scrivere un pezzo su “In Through The Outdoor”. In fondo non ci sarebbe nulla scrivere: c’è soltanto il profondo rammarico che gli Zeppelin ci abbiano lasciato per sempre mettendo a proprio epitaffio un album imbarazzante, il più brutto della loro carriera.

Del resto, parlare male di “In Through The Outdoor” è come sparare sulla Croce Rossa, e non sarebbe il caso di infierire più di tanto. Gli Zeppelin provenivano da un periodo orribile, che aveva visto il tour del 1977, il primo dopo il grave incidente a Plant, interrotto a causa di un collasso in scena di Page e alla morte del figlioletto dello stesso Plant. Nel 1978 i quattro si erano rinchiusi in uno studio di Stoccolma per ritrovare se stessi, registrando una decina di brani: sette sono qui, gli altri finiranno nel postumo “Coda”.

Su tutta l’opera grava una confusa tensione al cambiamento: gli Zep cercano di modificare se stessi ed il proprio suono, cercando un rinnovamento che troppo spesso si risolve nel triste tentativo di apparire “alla moda”. Il risultato più evidente è il massiccio e ingombrante uso di tastiere e sintetizzatori, che strombazzano in quasi tutti i brani. Sul piano stilistico, il Dirigibile vuole allontanarsi a tutti i costi dagli stereotipi e le etichette che lo hanno accompagnato nel suo volo, sia dallo hard rock che soprattutto dal blues, il padre che Page e soci rinnegheranno mille volte in questi solchi; fanno la loro comparsa sprazzi di pop, soul, musica caraibica, con cui gli Zeppelin vogliono confermarsi aperti a influenze e novità. Ma pagheremmo oro se il frutto di queste contaminazioni avesse almeno la solarità e il respiro di una “D’yer Mak’er”.

Eppure l’inizio non è dei peggiori: “In the Evening”, introdotta da sintetizzatori d’atmosfera, è un brano solido e tirato che ricorda le cose di “Houses of the Holy”, in cui chitarre e sintetizzatori riescono a convivere, e Page ci piazza un bell’assolo “rumorista”. L’album tiene ancora al secondo pezzo, “South Bound Saurez”, un singhiozzante rock’n’roll movimentato dal pianoforte di Jones, ma tutto crolla prima con “Hot Dog”, un ‘idiozia country-western in cui Page sembra la caricatura di se stesso, e poi con “Fool in the Rain”, in cui gli Zeppelin si trasferiscono al carnevale di Rio, con tanto di percussioni caraibiche e fischietti: desolante. Con “Carouselambra” arriva un supplizio di sintetizzatori di dieci minuti, in cui si ricercano disperatamente le atmosfere orientaleggianti di “Kashmir”, ma tutto rimane troppo pomposo, troppo sopra le righe; di fronte a tali e tante sbavature, un brano come “All my Love”, decisamente virato sul pop, risulta quasi un capolavoro, non fosse per l’ essenzialità e la disciplina dei suoi archi elettronici, e la crepuscolare malinconia di cui è permeato. Nel finale i quattro sentono per l’ennesima volta l’attrazione fatale della musica afro-americana, ma sono decisi a non capitolare di nuovo di fronte all’amato-odiato blues, come era accaduto per “Tea for One” su “Presence”: e così tirano fuori “I’m Gonna Crawl”, unica e tristissima incursione degli Zep nel soul, con Plant (mai in forma in tutto il disco) che si contorce e ulula imitando James Brown e le sue dolorose ginocchiate sul palco; meglio dimenticare.

Il tour europeo che seguì “In Through The Outdoor” fu tuttavia incoraggiante: dopo i periodi bui i Led Zeppelin sembravano aver riguadagnato la voglia di suonare insieme, mietendo successi ovunque si esibissero. Si sarebbe potuto sperare in un loro rinsavimento, se la sorte non avesse serbato l’ultimo colpo, quello fatale: il 25 settembre 1980 John “Bonzo” Bonham venne trovato morto in casa di Jimmy Page, che l’aveva reclutato per suonare la batteria nei suoi New Yardbirds dodici anni prima. Gli altri non ci pensarono nemmeno a continuare: Il Dirigibile precipitò per sempre, lasciandosi dietro una lunga scia di nostalgia e imitazioni, che ancora oggi alimentano la leggenda e tengono viva la devozione di uno dei più sentiti culti del pantheon rockettaro.

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