MANDARA, Bisanzio (–, 1999)

Il primo frutto del progetto Mandara. Un progetto che affonda le sue radici in terra di Calabria, e che riunisce un gruppo di musicisti caratterizzati dalla passione per le tradizioni musicali della loro terra, dell’Oriente e dell’Africa. E, del resto, una regione come la Calabria, luogo d’incontro (e di scontro) di tante culture – greca, romana, bizantina, araba, normanna, persino albanese – non poteva che incentivare questa passione. Ma Mandara non suona folk. In questo lavoro si fondono varie influenze che, a detta degli stessi interessati, includono sì la musica etnica, ma comprendono anche psichedelia, rock elettronico, pop e, perché no, anche un po’ di progressive. A questo proposito vengono citati gruppi come i tedeschi Can ed Embryo, gli inglesi Echo and The Bunnyman, gli americani Tuxedomoon. Al nucleo costituito dal batterista e percussionista Gennaro De Rosa, principale animatore del progetto, dal tastierista Alessandro Castriota Skanderbeg, dal bassista Edoardo Carlino e dal chitarrista Nino Rizzuti, bisogna aggiungere un buon numero di collaboratori: ad esempio il violinista Piero Gallina, il ‘cordofonista’ Antonio Bevacqua, il bassista e contrabbassista Giacomo De Rosis. “Bisanzio” è un lavoro autoprodotto, acquistabile tramite Vitaminic, a cui Mandara si appoggia. Ma in vista c’è un contratto discografico. Bene, e il disco com’è? Il disco ci è proprio piaciuto: è opera raffinata e meditata nella quale l’eclettismo di partenza assume una personalità ben precisa e si fa stile. Le sei tracce dell’album, tutte firmate dalla coppia Castriota/De Rosa tranne “Sybaris”, del solo Castriota, manifestano una assai lodevole varietà e originalità di argomenti e di ispirazione. Ci si accorge subito di avere a che fare con gente che osa e, quel che più conta, che è capace di osare: lo dimostra anche solo la grande varietà di strumenti utilizzati, fra cui spiccano senza dubbio le innumerevoli percussioni, autentico collante che informa di sé tutta la musica del gruppo. La ritmica al potere, dunque: ma c’è dell’altro. Si parte dalla splendida title track che, tutto sommato, si può tranquillamente definire un riuscitissimo esempio di prog mediterraneo, pressoché interamente strumentale. A questo proposito occorre dire che, con l’eccezione di “Sybaris”, nessun brano presenta liriche di forma tradizionale, e la voce, o meglio le voci, affidate a De Rosa e Castriota, si collocano quasi al livello degli strumenti, in modo che, di fatto, non si trova mai un vero e proprio accompagnamento. Una poliedrica musica aperta a 360°, impossibile da classificare rigidamente, con il pregio di riuscire a sorprendere realmente l’ascoltatore, dall’inizio alla fine. E infatti dopo “Bisanzio”, in cui spicca il violino di Gallina, ecco la decisa virata di “U’Surdat”, cioè “Il soldato”, che tratta, in dialetto, di una storia vera accaduta in Sila. È un rap che non è un rap; un rap sublimato e fuori dagli schemi: un po’ come quello presente in “Ovo” di Peter Gabriel. “Sybaris” ci riporta invece al VI° secolo a. C., precisamente al 510, in occasione della traumatica sconfitta, e distruzione totale, subita dalla ricchissima colonia greca di Sibari ad opera della vicina, e più aggressiva, Crotone: il tutto visto attraverso gli occhi di un soldato sibarita. Si tratta della pagina più classicamente pop dell’album, dalla struttura più tradizionale; il che non significa banale: ché di banalità, in “Bisanzio”, non ce n’è proprio. È l’unica traccia cui si possa attribuire il consueto termine ‘canzone’: questo sì. Il testo esprime bene la tristezza per la cancellazione totale della grande città. A scuotere colui che si fosse adagiato nella bambagia di sonorità più usuali ci pensa “KR-MI”, vale a dire “Crotone-Milano”, che in una efficace mescolanza di italiano e dialetto esprime la realtà dell’emigrazione attraverso uno dei suoi simboli più tipici: il treno. I rumori della stazione, il fischio del capotreno e i sussulti della locomotiva preludono ad una festosa tarantella condotta dalla zampogna di Giuseppe Pataro. Ma ben presto il tono si drammatizza e le voci si sovrappongono ed esplodono con impeto e violenza. Infine riprende la tarantella. Tutti i passaggi sono brillantemente risolti e scorrevoli. Segue “U’Scalun e’ri Cummar”, letteralmente “Il gradino delle comari”, una critica della mania meridionale di apparire: l’immagine scelta come esempio di questo comportamento è quella delle comari che fanno crocchio nei quartieri di paese. Un pezzo lungo e ipnotico, in forma di fascinosa e uniforme nenia dalle marcate sonorità mediorientali: a ben ascoltare però, si può suddividere in tre parti: la prima più suadente, la seconda più grintosa e plasticamente scandida dal basso, il finale pacato. A impeccabile conclusione di questo piccolo viaggio, che potremmo definire multiculturale, siamo riportati al punto di partenza. “Mandarava” è il pendant di “Bisanzio”: le colonne d’Ercole del disco. Anche la qualità è la medesima. Ma conforme al titolo, di origine buddista come il nome del gruppo (per il cui significato rimandiamo al relativo sito web), l’ispirazione proviene dall’estremo oriente: perfetta architettura, un ritmo contagioso e un finale magistrale. Da notare – e la considerazione valga anche per tutto quanto precede – i tecnicismi di De Rosa. Giustamente, a ribadire una delle caratteristiche più forti del disco, le ultime battute sono affidate alle sole percussioni: dopo la breve ma chiara apparizione del sitar.
Un paio di considerazioni sulla registrazione. È decisamente buona, soprattutto in considerazione che si tratta di una autoproduzione; per apprezzare appieno la musica occorre però tenere un volume non troppo basso. Per quanto riguarda la ripresa degli strumenti, avremmo personalmente gradito, rispettivamente in “Bisanzio” e in “KR-MI”, violino e zampogna (specialmente quest’ultima) un poco più avanzati e vigorosi. Elementi che potrebbero essere perfezionati in occasione di un’auspicabile ristampa.
Nei prossimi mesi intanto è prevista la pubblicazione del secondo lavoro.

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