DIVINE COMEDY, A Short Album About Love (Setanta Records, 1997)

32 minuti di assoluto splendore, 7 canzoni di disarmante bellezza; questo è “A short album about love”, capitolo essenziale nella discografia della Divina Commedia, creatura di quel genietto chiamato Neil Hannon. Il talento dandy e malinconico di questo figlio d’Irlanda è dispensato a piene mani, impregnando di classe sopraffina ogni singola nota.

Pensate che il disco è stato registrato dal vivo allo Shepherds Bush Empire di Londra e la sua perfezione stilistica è tale da fare pensare ad ore ed ore di registrazione in qualche studio claustrofobico. Qui invece siamo all’interno di uno dei più famosi teatri londinesi ed un’intera orchestra di oltre trenta elementi è a disposizione della band e del suo geniale leader. Gli arrangiamenti del rampante Joby Talbot sono drammaticamente sublimi e sospendono le melodie su un’invisibile corda tesa, pericoloso passaggio obbligato verso ideali voluttuosi e peccaminosi. Vorrei soffermarmi inoltre sulla magnifica prova vocale di Hannon, uno dei pochissimi vocalists in circolazione che si può permettere di coniugare potenza, pulizia ed interpretazione, evidenziando una sorta di comunione emotiva con alcuni grandi francesi della Rive Gauche (Jacques Brel, Leo Ferré).

Ascoltando “In pursuit of happiness” o “Someone” si entra in un vortice di suoni ed emozioni senza uscita, trattenendo attimo dopo attimo il fiato ed arrivando in apnea, meravigliosamente esausti, alla fine di queste suadenti trombe d’aria. In verità vi esortiamo a considerare tutte queste sette tracce come capolavori veri e propri, dal bellissimo restyling di “Timewatching” (presente in “Liberation”, qui resa molto più dolente e pesante), all’eccezionale binomio musica-testo di “If…”, una delle più riuscite canzoni d’amore mai state scritte.

Della durata di un vecchio vinile primi anni Sessanta, “A short album about love…” è una lampante dimostrazione di quanto siano inutili, nella maggioranza dei casi, CD da oltre 60 minuti nei quali la qualità si disperde fatalmente. Poche cose, fatte e dette bene, se possibile con la voce un po’ da crooner, un po’ da chansonnier maudit, un po’ alla “Jim Morrison sings his ballads” di Hannon, divino (eh già!) cantore delle proprie creature.

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