CULT, Beyond Good & Evil (WEA/Atlantic/Lava, 2001)

In uno scenario rock inflazionato da ragazzini saltellanti che maneggiano chitarre troppo distorte per rendersi conto di ciò che fanno, i Cult si riconquistano a pieno titolo uno spazio importante. “Beyond Good & Evil” è un disco potente, energico, pieno di quel “British Hard Rock” che una decina d’anni fa aveva trovato una felice incarnazione in quel piccolo capolavoro che era “Electric”.
Le danze si aprono con “War (The Process)”, brano che non cerca compromessi né con la scena metal attuale, né con un’eventuale “passabilità” radiofonica; una canzone costruita su solidi riff colorati da imponenti chitarre. A dire il vero, il passaggio con la canzone successiva, “The Saint”, è alquanto indolore, in quanto è quasi impercettibile la differenza tra i due brani.
Effettivamente il disco in generale si compone di brani praticamente monocordi, puri muri di suoni in cui le chitarre spadroneggiano e in cui il basso assume una prepotenza sconosciuta nei precedenti lavori dei Cult, ma ormai un “must” nel metal moderno. Chi fa la differenza è probabilmente il vecchio Ian Astbury; proprio la mente e la voce dei Cult impedisce a brani come “Take The Power” di assomigliare a uno scimmiottamento dei Rage Against The Machine. Intendiamoci: non di sola voce si tratta. Le canzoni dei Cult hanno un marchio di fabbrica inconfondibile, quel “tiro” incredibile di batteria che, se ascoltato in auto, può provocare una pericolosa esaltazione. Il ritmo “steady” di canzoni come “Rise” o “American Gothic” invita inevitabilmente al salto, non facendo rimpiangere più di tanto i tempi d’oro di “Here Comes The Rain”.
“Beyond Good & Evil” concede anche brevi e tonificanti momenti di pausa, con brani come “Nico”, delicata ballata elettrica offerta in omaggio all’indimenticabile fata dei Velvet Underground, o “True Believers”, buona canzone eppur solcata da chitarre “sviolinate” che fanno ricordare i peggiori Aerosmith.
Può sembrare troppo facile e scontato l’assioma secondo cui chi è venuto prima ha da insegnare a chi viene dopo; eppure, nel caso dei Cult, pare che qualcuno abbia congelato l’ispirazione di Astbury e soci per poi farla rinvenire in un panorama metal gonfio di cliché fiacchi ancor prima di nascere.

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