PLACEBO, Black Market Music (Hut/Virgin, 2000)

Brian Molko (voce e chitarra), Stefan Olsdale (basso, chitarra e tastiere) e Steve Hewitt (batteria) non hanno perso tempo ad annunciare il nuovo album dei Placebo come un’opera ancora più dura ed energica dei loro primi due successi. Ed in effetti il singolo di lancio, “Taste in men”, sembra dare
credito a queste affermazioni, confermandosi una delle migliori canzoni di “Black Market Music” per le sue atmosfere cupe ed un po’ sospese in una sorta di dimensione parallela, mentre il testo rimanda ad una realtà tutt’altro che ideale, che sa di alcool, solitudine e sfiducia nei valori.

Tuttavia, più si ascolta l’opera e più le tracce sembrano perdersi e
confondersi nei ritmi sincopati di canzoni come “Days before you came” o “Passive aggressive”, niente di particolare o particolarmente innovativo, sicuramente impreziosite dalla voce non comune di Molko, ma non per questo entusiasmanti. Una nota particolare a “Slave to the wage”, che probailmente riesce a distinguersi per una melodia ben più assimilabile e che ricorda quanto possa essere squallida la vita nel mondo moderno.

Cambiando completamente ritmo, “Commercial for Levi”, “Haemoglobin” e “Blue American”, seppur trascinandosi accattivanti e vellutate, non riescono a distinguere i Placebo come fu per l’album l’album precedente, sia a livello di musica che di testi. “Spite and malice”, ad esempio, rimanda decisamente a “Without you I’m nothing”, ma risulta molto meno coinvolgente nonostante l’accattivante titolo. Ed il momento più basso dell’intero cd giunge con “Special K”, eseguita in collaborazione con un rapper, dalla la base ritmica ben impostata, ma alquanto monotona per ciò che concerne il resto. E non basta parlare di “dope” e “fucking in the streets” per considerarsi portavoce della trasgressione. Ma questa può essere retorica…

Eppure, canzoni quali “Narcoleptic” e, soprattutto, “Black – eyed”, fanno pensare: quest’ultima si presenta come un lento che, nell’obiettivo di rendere atmosfere decadenti ed uggiose, risulta abbastanza monocorde, seppure potrebbe essere di buon sottofondo in una giornata piovosa d’autunno. Ecco, forse questo potrebbe essere simbolo di un’impressione derivata dall’intero album.

E si sorride nella conclusiva “Peeping Tom” sulle parole “you’re the one who makes me feel much taller”. Il piccolo Brian (vedere per credere) dovrebbe però sapere che non basta consacrarsi icona del rifiuto degli stereotipi del mercato discografico per mantenere il successo. Per distinguersi dai temuti “altri” è necessario che la presunta sperimentazione (ops ho proprio detto quella parola?) sia portata avanti prima che diventi a sua volta un’immagine fissa.

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