COLOSSEUM, Valentyne Suite (Vertigo, 1969, Castle 1972)

Seconda e più nota opera dei Colosseum, formazione del rock-jazz inglese, dopo l’esordio di “Those who are about to die salute you”, nello stesso anno. Nato per iniziativa del batterista Jon Hiseman e del sassofonista Dick Heckstall-Smith, il gruppo comprese, sino alla realizzazione di questo album, Dave Greenslade alle tastiere, James Litherland alla chitarra e Tony Reeves al basso. A questi ultimi due era affidata la sezione vocale. L’abilità tecnica del quintetto è qui ben testimoniata, ma l’importanza del disco consiste soprattutto nel fatto che molti vedono in esso uno dei prodromi del progressive-rock vero e proprio. A questo proposito vorremmo fare alcune considerazioni. Esistono indubbiamente accenti progressivi in “Valentyne Suite”, ma questo è vero soprattutto, se non esclusivamente, per quanto riguarda la suite omonima che chiude l’album: uno stupendo brano pressoché interamente strumentale, diviso in tre parti, compositivamente raffinato e che, a nostro avviso, si stacca nettamente da quanto lo precede. Maggiore è la complessità strumentale, in cui lo stile jazzistico tendente all’improvvisazione lascia in buona parte il posto ad una struttura prefissata e bilanciata. Stupendo in particolare il “Theme Two”, con un delicato ed epico vocalizzo corale su cui esegue i suoi arabeschi il sax di Heckstall-Smith. Ma efficaci sono anche i passaggi fra le diverse parti: il tema principale del “Theme Three”, che lo apre e chiude, con composizione ad anello, sembra anticipare consimili invenzioni dei Van der Graaf Generator, dove non a caso avranno importanza fondamentale i fiati, e specialmente proprio il saxofono, di David Jackson. Impeccabili le tastiere e il pianoforte di Greenslade, così come la virtuosistica batteria di Hiseman (che dalla seconda metà degli anni settanta si dedicherà definitivamente al jazz). Dobbiamo ammettere che la preferenza per la seconda parte del disco deriva anche dalla nostra predilezione per il rock progressivo: ma certo le prime quattro tracce non ci paiono cosa eccelsa, nella sezione vocale come in quella strumentale; la sezione ritmica però è indubbiamente di valore. Brani gradevoli ma che rischiano di rientrare nella inflazionata categoria del “carino”.
Un buon album, quindi, che testimonia la vitalità del rock inglese alla fine degli anni sessanta: nel medesimo ’69 i King Crimson incidono “In the Court of the Crimson King”, una delle prime icone del prog-rock.

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