KING CRIMSON, Lark’s Tongues in Aspic (Island Records, 1973)

Da oltre trent’anni il Regno del Re Cremisi attraversa i lustri senza conoscere battute di arresto. Innumerevoli e valorosi “cavalieri” si sono succeduti per sostenere la causa di Sua Maestà Fripp, il quale ha sempre ottenuto il meglio dai propri collaboratori.

“Lark’s Tongues in Aspic” apre una delle stagioni sicuramente più interessanti della produzione dei King Crimson. Come di fronte ad una sorta di ristrutturazione aziendale, questo disco presenta un drastico “taglio del personale”; niente più pompose sezioni di fiati o strumentisti a mezzo servizio. Dopo le esplorazioni sonore, a tratti eccessive, di “Lizard” e “Islands”, e testi popolati da pifferai e gnomi (cliché adottati in pieno dai gruppi di rock progressivo dell’epoca, e inaugurati proprio dagli stessi Crimson con il loro primo album) ecco un disco decisamente “duro”, più vicino forse a quell’ondata di jazz-rock che negli anni seguenti inizierà timidamente a calcare le scene (un nome per tutti: i Romantic Warrior di Chick Corea), piuttosto che a dei coevi Yes o Genesis.

Ad accoglierci troviamo il potentissimo riff della canzone d’apertura “Lark’s Tongues in Aspic Part I”, incastrato negli esperimenti percussivi di Jamie Muir; il basso detonante di John Wetton, carico di distorsione e wah-wah, e la preziosa batteria di Bill Bruford fanno il resto. Ma non tutto metallo duro è ciò che luccica. “Lark’s Tongues in Aspic” conosce anche momenti di alto lirismo, che riportano immediatamente alle atmosfere sognanti di “In the Court of the Crimson King”. Ma qui non troviamo la voce calda e morbida di Greg Lake, bensì un John Wetton dai toni rauchi e selvaggi. Ad ogni modo, in riuscitissimi episodi come “Book of Saturday” o la lunga “Exiles”, trovano il giusto spazio il violino di David Cross, all’inseguimento di melodie toccanti e a volte ipnotiche (come in “The Talking Drum”, lunga escursione esoticheggiante) e l’immancabile mellotron, che apre sconfinati squarci sonori.

Ma la parte del leone è inevitabilmente affidata a Robert Fripp. Mai come fino a questo disco, il timido chitarrista occhialuto dei Crimson aveva osato esporsi tanto. La sua chitarra non solo dirige le lunghe cavalcate virtuose che vedono impegnato l’intero gruppo (come in “Lark’s tongues in aspic part II”), ma arriva ad invadere ogni pertugio sonoro lasciato incustodito. Nessuna concessione a svenevoli chitarre acustiche; il suono è esclusivamente elettrico, nel cui ambito si alternano parti decisamente “heavy” ad altre in cui la chitarra di Fripp assume toni lievi e flautati.

Ciò che col senno di poi è intuibile da questo disco è il fatto che i King Crimson si siano sempre imposti sulla scena rock come autentici precursori di stili e tendenze, soprattutto nell’ambito di quella nicchia del rock cosiddetto “colto”. Lunga vita al Re Cremisi.

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