IRON MAIDEN, Brave New World (Sony-Columbia, 2000)

Senza ombra di dubbio, “Brave new world” rappresenta quel sogno proibito che molti fans dei Maiden hanno sempre sperato di vedere realizzato, a partire dalla line up che ha dato vita e forma a questo pregevole lavoro. Questo album infatti vede l’importante ritorno di due membri storici che hanno segnato i momenti d’oro di questo gruppo: il transfuga Bruce Dickinson e soprattutto Adrian Smith, figliol prodigo assente dalla band da più di dieci anni. Ma per chi pensasse che la presenza di Smith o di Dickinson nei Maiden sia un po’ come il ritorno del Trap nella Juve degli anni ’90, troverà secche smentite.
“Brave new world” è veramente un buon album. Nessuno spazio concesso a rockettini orecchiabili che tanto hanno caratterizzato la più recente produzione dei Maiden, o lentoni tirabaci alla Metallica. Finalmente si torna alle vecchie cavalcate in pieno stile Maiden, in cui il basso di Harris (cosa insolita, autore di un solo brano) tuona inesorabilmente su tutte le dieci lunghe tracce che danno corpo a questo disco, mentre le tre (!) chitarre si incrociano in un turbinio di riff tanto incisivi quanto ripetitivi e a volte scontati. I pezzi più ispirati sembrano provenire proprio dalla chitarra di Adrian Smith e del redivivo Murray, mai così prolifico, che con pezzi come “The wicker man”, “The fallen angel”, “The thin line between love and hate” sembrano far rivivere gli antichi fasti della “New Wave Of British Heavy Metal”. L’anima più rockettara e “easy listening” è affidata ai brani di Janick Gers.
Chi ama i Maiden di “Piece of mind” o “Powerslave” non potrà certo rimanere deluso da questo nuovo lavoro, che pare trovare ispirazione proprio in ciò che questa band sa fare meglio: un onesto e deciso “classic metal”. “Brave new world” contiene anche delle azzardate e fortunatamente brevi incursioni dei Maiden in territori da essi ancora inesplorati come il “prog metal”; canzoni come “Blood Brothers” sono l’infelice incontro tra gli Stratovarius e Rondò Veneziano. Dunque non aspettiamoci grandi rivoluzioni; sfortunatamente questo è un genere pieno di cliché quanto un libro della Tamaro, ma dischi come questo trovano la giusta dignità nella discoteca di ogni metal kid (ma si chiamano ancora così?).

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