FRANK ZAPPA, Hot Rats (Bizarre Records, 1969)

Che Frank Zappa non fosse una semplice pop star, bensì un autentico compositore di musica contemporanea “colta” lo si è già ripetuto più volte. Basta darsi un’occhiata in giro per scovare nei programmi dei festival di musica classica alla ricerca di nuovi stimoli, qualche ensemble alle prese con le folli partiture del musicista siculo-americano. Tuttavia, nel corpus zappiano sembra non trovare la giusta dignità un piccolo gioiello di incandescente inventiva: “Hot Rats”. Per i puristi zappiani, questo disco costituisce una violenta incursione del nostro beniamino nel mercato commerciale (peraltro sempre sbeffeggiato apertamente da Zappa), e pertanto non all’altezza degli altri lavori.
In realtà, “Hot Rats” contiene tutti gli ingredienti tipici del più ispirato Zappa: complessità armonica e ritmica, arrangiamenti ricercati, e soprattutto una costante ironia. Chi ascolta per la prima volta “Peaches En Regalia”, il brano di apertura di “Hot Rats”, può essere colto da molteplici impressioni: “Non ho mai sentito nulla di simile”, “Questo non è rock”, “Quest’uomo mi sta prendendo per il culo”. In effetti, ciascuno di questi commenti può trovare una sua giustificazione. La chitarra “mandolinata” che esegue il tema principale del brano, l’autoironia che traspare dall’eccessiva pomposità degli arrangiamenti, la sguaiatezza dei fiati a mo’ di banda di paese; tutto questo è contenuto nei densissimi tre minuti e mezzo di “Peaches En Regalia”.
Il resto del disco corre su due binari ben precisi: da una parte i brani più “orchestrali”, dalla struttura rigida e ben definita; dall’altra lunghe suite basate su uno scarno tema che viene stravolto e storpiato in interminabili improvvisazioni. La vena è incredibilmente bluesy (basti pensare a “Willie the Pimp”, cantata dal catarroso Captain Beefheart), ma dietro c’è il tentativo di spostare l’asse dell’ispirazione su terreni fino ad allora poco battuti da Zappa. E così trovano spazio piccoli cameo di raffinatezza jazz come “Little Umbrellas” o “It Must Be a Camel” (con il violino di Jean-Luc Ponty), ma anche ipnotiche sedute di improvvisazione totale come “The Gumbo Variations”.
Non c’è che dire: ci troviamo di fronte ad un disco veramente ben confezionato, pieno zeppo di melodie ben affilate e pronte a conficcarsi nelle orecchie dell’ascoltatore; un po’ il “The Dark Side Of the Moon” di Frank Zappa. Certamente si tratta di un disco molto meno “scomodo” rispetto ad altri dove le pungenti liriche di Zappa hanno un peso maggiore che in questo (“Willie the Pimp” è l’unica cantata). Tuttavia non è possibile non amare questo disco così traboccante di fresche idee compositive e di una innocente ironia pronta a scherzare con suoni e note. Non crucciamoci dunque se non sentiremo mai Pierre Bouléz dirigere “Peaches En Regalia” o “Son Of Mr. Green Genes”. Certa musica, per essere definita “colta”, non ha bisogno di alcun “sdoganamento” intellettuale/culturale.

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