LADYTRON, “Gravity The Seducer” (Nettwerk, 2011)

I Ladytron vengono da Liverpool, anche se in pochi, ascoltando una loro qualunque canzone, lo penserebbero. Dimenticando magari che gli stessi OMD non è che abitassero troppo lontano, ai tempi. La formazione synth-pop britannica che deve il proprio torbido nome ad una bellissima canzone dei Roxy Music (la trovate nel primo omonimo del 1972) approda in questi giorni al suo quinto album di inediti, a coronamento di una carriera ormai decennale, testimoniata sempre quest’anno dalla doppia antologia “Best Of 00-10” (senza dubbio da ascoltare con attenzione). Forse non saranno “The best of the english pop music”, come pure ha pubblicamente sentenziato il loro mentore Brian Eno, ma, prosaicamente, scrivetela voi una canzone come “Runaway”, tanto per citarne una, e poi forse ne riparliamo.

L’ombroso Daniel Hunt ha voluto fare le cose piuttosto in grande con “Gravity The Seducer”, componendo un’operetta densa e monolitica che si inerpica tra un capriccio romantico alla Truffaut e la consueta devozione per gli ammaestramenti sintetici di Yazoo, Human League, Propaganda o Depeche Mode. Le voci delle due muse Mira Aroyo ed Helen Marnie si intrecciano in un arabesco di synth e palpitazioni elettroniche che, dall’iniziale (e devastante) “White Elephant” fino alla conclusiva “Aces High”, descrivono il movimento multiplo e sfuggente di una seduzione che non paga il minimo dazio al sentimentalismo più convenzionale. Dai barocchismi lirici (in odore di un Bizet ridipinto a nuova vita da Jean-Michel Jarre) di “White Cold” fino all’estetismo prezioso e fremente di “Ambulance” (che resuscita l’estasi mariana dei Cocteau Twins dopo la rivolta delle macchine), il disco innalza i suoi pressoché perfetti teoremi del piacere e del tormento, spaziando attraverso virtuosistici decoupage retrofuturisti (alla Stereolab e Broadcast, tanto per intenderci) che grattano polvere dorata di nouvelle vague ormai trascorse (seguite il movimento di impermeabili parigini e spionistiche Austin che segna “Ritual”) sui binari ancora caldi di corrieri cosmici lanciati nello spazio siderale (“Altitude Blues”).

Se in “Ladytron” la mano languida di Bryan Ferry-Casanova circuiva le ansie sensuali di una femme fatale robotica (guidata a distanza dalle manopole di Eno), con “Gravity The Seducer” i Ladytron arrischiano una riscrittura cibernetica del Don Giovanni mozartiano, librandola tra melodramma cantabile e gelida pantomima di spettri. Forse, in prospettiva, non tutto quadra perfettamente (qualche tempo morto di troppo), ma il risultato si lascia comunque godere con gioia sopraffina.

70/100

(Francesco Giordani)

11 Ottobre 2011

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