PJ HARVEY, “Let England Shake” (Universal Island, 2011)

Polly Jean sta viaggiando a ritroso nel tempo, all’interno delle sue – ma soprattutto nostre – paure. Se l’urlo finale senza speranza in “The Mountain”, ultima canzone di “White Chalk”, lasciava atterriti, indifesi e scevri di risposte, rappresentando una disperazione soggettiva, “Let England Shake” usa la stessa profondità ma va oltre, fuori, nella Storia, nei conflitti, nelle diverse culture, ponendosi la domanda che sempre si è posto l’uomo sociale, quella sul significato delle guerre. Sembra che P.J. Harvey sia uscita da se stessa e, con una lucidità che solo i grandi artisti hanno, abbia voluto confrontarsi con temi alti, collettivi.

Non si può discutere di “Let England Shake” senza partire dai testi, visto che questa volta è stata la stessa Polly Jean a iniziare dalle liriche e poi a lavorare sulle musiche, invertendo l’ordine usuale del suo modo di comporre. E lì si trova subito una possibile chiave di lettura, quella che la musica comunque già trasmette: “Let England Shake” è un disco rock basico, quasi primordiale, fatto di un folk grezzo e increspato che è suono senza tempo (è stato registrato in una chiesa del Dorset), giaciglio per parole compiute e pesate.

“England’s dancing days are gone” canta nel brano di apertura, e continua in quella che pare un’invettiva (poetica) all’intervento inglese a fianco degli States in Afghanistan e in Iraq: “I’ve seen and done things I want to forget / I’ve seen soldiers fall like lumps of meat” (“Ho visto e fatto cose che voglio dimenticare / Ho visto soldati cadere come pezzi di carne”, da “The Words That Maketh Murder”). Le chiuse alle liriche sono terribili e senza speranza: “What is the glorious fruit of our land? / Its fruit is orphaned children” (“Qual è il frutto glorioso della nostra terra? Il suo frutto sono bambini orfani”, da “The Glorious Land”), o alle volte beffarde (“What if I take my problem to the United Nations?”).

L’afflato potrebbe essere troppo contingente e invece P.J. Harvey riesce a mantenersi in un’ottica poetica sia grazie a quell’universalità cercata nel passato, nelle guerre che furono, come ha confermato la stessa P.J. in un’intervista all’ Huffington Post, sia per mezzo del lavoro certosino sulla scrittura con il faro di Eliot da una parte e le citazioni tratte da un paio di libri, “Voices of Gallipoli” di Maurice Shadbolt e “Russian Folk Lyrics” di Roberta Reeder, dall’altra.

Ma non si deve pensare che “Let England Shake” sia un album seminale solo dal punto di vista dei testi: i nuovi strumenti con cui Polly si è approcciata (autoharp e sax) la completano come cantautrice a tutto tondo, anche se se ciò era indubitabile da tempo e da ultimo con l’esplorazione del pianoforte in “White Chalk”. P.J. Harvey è vocalmente talmente espressiva da non avere rivali in certe esecuzioni di pancia (“England”) o di grinta (“Bitter Branches”), e non si sottrae nemmeno nel donarci canzoni più classicamente alla “Stories From The City…”, come ad esempio “In The Dark Places”, oppure rimandi inaspettati, come il campionamento della batteria dei Police di “The Bed’s Too Big Without You” in “The Glorious Land”.

“Let England Shake” è, dal punto di vista della classicità, come un disco rock del Settecento se nel Settecento fosse esistito il rock, come “White Chalk” poteva essere definito un po’ grossolanamente un disco rock dell’Ottocento. Polly Jean lo dice pure in “The Last Living Rose”: “Take me back to beautiful England”, nella Londra “navale” e settecentesca. A noi in realtà basta mettere su l’ultima superlativa prova della cantante inglese per poter scorrazzare in quei vecchi, grigi ed umidi vicoli lungo il Tamigi.

81/100

(Paolo Bardelli)

foto in home di john or juan
tratta da Wikipedia

13 febbraio 2011

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