JAMES BLAKE, “James Blake” (Atlas/A&M Records, 2011)

Sarà forse che loro hanno un primo ministro quarantacinquenne che ascolta gli Smiths, costretto a rispondere in un question time a domande del tipo: “Quale canzone degli Smiths dovrebbero cantare gli studenti in caso di approvazione della riforma del sistema universitario?”. Ma non si capisce per quale maledizione divina in Italia i giovani o pseudotali emergenti debbano venire su da fenomeni di devianza sociale generalizzata quali Amici (quelli mainstream) o X-Factor (quelli che vorrebbero essere di qualità). E gli altri fuori dal mainstream siano invece costretti a diventare trentenni prima di finire nel dimenticatoio. O, in linea con la situazione macro italiana debbano trovare fortuna all’estero anche perché lo stesso sottobosco indipendente è praticamente fermo a nomi e logiche da fine anni Novanta. Altrove, un po’ ovunque, non sono messi così male.

In Inghilterra, a Londra, capita che un giovane sfigatello ventunenne, tale James Blake assurga in meno di un anno al rango di maggiore promessa della scena alternativa britannica. Dalla torbida scena garage del sud-est londinese alla BBC. Sì, perché nonostante il giovane Blake abbia alle spalle una gavetta fatta di studi di pianoforte e corsi di laurea di università di musica popolare, non ha scelto la tv. Né i lustrini indie o brit. Ha fatto quello che più lo stimolava. Addentrandosi nella fosca scena dei club di nicchia dubstep e 2-step. Dove in nebbiosi scantinati un manipolo di dj hanno scritto davanti a platee di quaranta-cinquanta persone uno dei capitoli più significativi della musica contemporanea. Il merito dell’eclettico James Blake è stato quello di sdoganare le ostiche sonorità elettroniche del genere con un’incredibile sensibilità pop. Direttamente da Deptford, l’area che diede i natali a Christopher Marlowe. Anonima fino a qualche anno fa, poi rivitalizzata al punto di beccarsi l’appellativo di “New Shoreditch” per l’affine mix di degrado urbano e vivacità trendy. Tra i dock della zona, qualche settimana prima del diploma di laurea, James conosce i Digital Mystikz, duo di riferimento del dubstep, e da allora cambia prospettive.

Così il suo background r’n’b da risposta britannica a D’Angelo dà una prospettiva sui-generis ai claustrofobici panorami garage. Non sono bastati tre impeccabili EP nel 2010, “The Bells Sketch”, “CMYK” e “Klavierwerke”. Arriva subito l’ambiziosa prova del primo LP, omonimo, per la consacrazione. All’insegna del minimalismo, come se sample, basi e pulsioni più digitali fossero definitivamente inghiottite dal piano e dai silenzi su cui decide di giocare in questo esordio.

Lo smorzato crescendo di “Unluck”, r’n’b da brivido tracciato dalle classiche ritmiche spezzate del 2-step, è il manifesto programmatico dell’album, la sintesi delle sue due anime. Così come nella affine “I Never Leant To Share” l’incredibile cover, a partire dall’idea di base, di “Limit To Your Love” dell’icona del cantautorato indie canadese Feist. La La calda voce soul di Blake colora i freddi vuoti. L’effetto è straniante. Ad eccezione di “To Care (Like You)”, che quasi abbraccia atmosfere trip-hop da degna evoluzione contemporanea dei Massive Attack e di “I Mind” unico brano veramente legato alla sua estrazione garage, prevale l’anima cantautorale di Blake.

Un assurdo compromesso glitch tra Antony e gli XX (peraltro suoi amici). Meno teatrale di Antony (“Give Me My Month” è roba da pianismo jazzy tradizionale), lontano dalla wave su cui gli XX hanno operato la medesima rivisitazione minimalista. Blake piuttosto cede più volentieri in invernali intimismi da cameretta con o senza sfondi da elettronica lunare stile Boards Of Canada e rende la sua formula molto più originale e nuova dei suoi amici. E allo stesso tempo molto meno digeribile dai primi ascolti. “Lindesfarne” nella parte seconda sconfina quasi nella folktronica, ma con discrezione.

Riuscire a dire tutto in un minuto e mezzo, con poco. E forse non voler dire niente. Lasciando intendere e facendo annegare l’ascolto in una continua sensazione di amaro in bocca. Come nel nichilismo di “Why Don’t You Call Me”. Mai come in queste produzioni Blake, fa leva sulle pause più che su echi e riverberi. L’alienante ”Wilhelms Scream” è un pezzo che sembrerebbe scritto da Thom Yorke, senza questa percezione di incompiutezza ed evanescenza che disorienta e al tempo stesso avvolge.

Come tutto ciò sia stato concepito da qualcuno che fino a qualche mese fa si divertiva a remixare Snoop Dog e Lil Wayne, dividendo la consolle con loschi figuri del calibro di Untold e Mount Kimbie, lascia aperti interrogativi di natura metafisica o spirituale che sarebbe inopportuno provare a immaginare.

Ciò che ci piace immaginare è che la musica britannica del futuro parta da qui. Dal dubstep lungo le galassie elettroniche della rivoluzione silenziosa di James Blake.

82/100

(Piero Merola)

2 febbraio 2011

3 Comments

  1. Pingback: James Blake Album Art | Analyzing Album Art

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *