GORILLAZ, “The Fall” (Emi, 2010)

Lo si sa perchè in pratica l’hanno detto e scritto ovunque. Il quarto (e forse ultimo ma non c’è mai da fidarsi troppo in questi casi) disco di inediti dei Gorillaz, “The Fall”, è stato scritto e composto integralmente da Damon Albarn sul suo iPad durante le lunghe pause dell’ultima trionfale tournée americana della band, per essere poi regalato gratuitamente lo scorso venticinque dicembre agli iscritti del fan club ufficiale. In attesa che il disco, come annunciato, arrivi anche nei negozi in formato fisico tradizionale (qui intanto si può consultare l’elenco completo delle applicazioni impiegate da Albarn per la realizzazione dell’album), risulta davvero arduo sottrarsi alla tentazione di spendere qualche pensiero su questo bislacco oggetto sonoro che cita nel titolo tanto un gruppo post-punk britannico quanto un romanzo esistenzialista francese.
Pensieri che potrebbero partire da quel suono di ukulele che accompagna il bel singolo “Revolving Doors”, visto e considerato che, in effetti, Albarn usa il suo iPad come un piccolo ukulele digitale, con cui miniaturizza e assembla algoritmi e geometrie modulari di suono (sentite “Detroit” o “Little Plastic Bags”) nelle quali si fatica a capire dove finisca l’intrattenimento blandamente antistress e cominci la pura creazione (e “Phoner To Arizona” sta esattamente tra la pagina stropicciata di diario e una partita distratta a Pong).
Ad ogni canzone fa tra l’altro da corredo una sequenza di foto nelle quali vengono catturati scorci iperreali di un’America quasi sempre osservata di sbieco o forse solo sognata dai sedili imbottiti di un tour-bus in perenne movimento, tanto che quando parte “The Parish Of Space Dust” sembra davvero di ondeggiare tra le frequenze balbettanti di una radiolina in modalità shuffle che si trascina nello zapping convulso di epoche contraddittorie (impressione che già l’ultimo “Plastic Beach” ci aveva suscitato, come scrivemmo a suo tempo), poi bruscamente interrotte dal karma dub di “The Snake In Dallas”. Nel complesso a prevalere è la sensazione di sfogliare un carnet di viaggio fatto di schizzi e appunti furtivi (le splendide “Aspen Forest” e “California & The Slipping Of The Sun” vanno in questa direzione), una moleskine digitale che in più punti riaccende il ricordo del Thom York di “The Eraser” (tanto che “Amarillo”, forse la traccia più emozionante, avrebbe potuto senza troppi problemi farne parte), se non fosse per quell’amore così tipicamente albarniano (e ormai prossimo all’ossessione) per fanfare e marcette farfuglianti, ragtime e frusti dagherrotipi blues (“Bobby In Phoenix”) ritradotti nel codice morse di beat puntiformi, come una microscopica sinfonia di chip obbedienti.
Ma “The Fall” è anche e soprattutto un disco che ci mette di fronte ad un interrogativo di importanza non trascurabile. È infine giunta l’epoca in cui ognuno di noi scrive, suona e registra la musica che ascolta? È forse iniziata l’epoca non già della ri-produbilità quanto piuttosto della producibilità tecnica tout court dell’opera d’arte? Su queste domande scottanti ci arrovelliamo, tentati pure noi dall’acquisto di un iPad surrettizio, mentre il confine tra la democratizzazione integrale dell’atto creativo su scala planetaria e il trionfo narcisistico del più oscuro solipsismo si assottiglia inesorabilmente, ad ogni ora che passa.

(Francesco Giordani)

21 gennaio 2011

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