WAVVES, “King Of The Beach” (Fat Possum, 2010)

Si parlava di shit-gaze quando la scena di San Diego è stata sconvolta dal neanche ventenne Nathan Williams. Faccia e fisionomia da skater perdigiorno. Eppure prima nell’esordio omonimo, e poi in “Wavvves” con tre v, questo infernale post-punk con fuzz a iosa ed equalizzazioni ai limiti dello strazio, ha retto bene. Come se i Jesus & Mary Chain dimenticassero di saper suonare.
Canzoni dalla statura compositiva inesistente e una sbandierata bassa fedeltà. Dopo l’impagabile figuraccia rimediata in Spagna al Primavera Sound 2009 quando litiga con tutti non riuscendo a tenere in mano una chitarra per un mix di paste, coca e valium. Né gli hanno giovato le successive confessioni sui problemi con l’alcolismo.

Il pur giovane Williams torna in spiaggia. Abbassa le pretese da rockstar. Riscopre la quotidianità dello sballo da spiaggia. E soprattutto tiene a bada le frequenze più pericolose. “King Of The Beach” si lascia ascoltare con piacere. Passati da duo a trio, assumono le sembianze di Nirvana dal volto (dis)umano della generazione twitter. Senza nessuna vergogna per il paragone. Wavves della tradizione anni ’70 ha fortunatamente poco. Non sente la necessità di infilare un assolo in ogni canzone. In lui scorre il sangue dei Germs, delle scorribande alla benzedrina di “Fire Of Love” dei Gun Club. Ma soprattutto è l’approccio scanzonato. Ai tempi dei Nirvana si sarebbe detto slacker. Nessuna vergogna di avere testi d’impatto immediato. Ma in questo sound ripulito, al di là della cazzonaggine imperante, emerge un sound da veterani. Nessuna deriva pop. Semplicemente ora è ascoltabile anche per i meno abituati a muri di chitarrone noise. Basta ascoltare le venature surf dell’impagabile titletrack e “Super Soaker” per capire come in fondo rispetto ai primi due LP si siano solo abbassati i volumi e contenuta la tendenza al feedback. Almeno nella prima parte si respira il nichilismo chitarristico che sommerge cantilene tra lo zuccheroso e lo scazzo come marchio di fabbrica. “Post Acid” suona già come un inno. “Idiot” è il suo manifesto d’intenti. In “Take On The World” e la deviata “Linus Spacehead” si respirano più che mai soffocanti atmosfere alla Nirvana. Con stridori surf e falsetti sixties a fare da caleidoscopio.

In questo apparente quadro di nichilismo a buon mercato emerge la statura compositiva di questo skater mancato. “When You Will Come” omaggia i Jesus & Mary Chain, in una sorta di “Just Like Honey” con evanescenti linee vocali dream-pop. Sarà l’apporto di Stephen Pope e Billy Hayes, ma Wavves assume i contorni di un progetto incredibilmente maturo visto il genere. Nella seconda parte dell’LP “Baseball Cards” sembra scritta dagli Animal Collective inghiottendo ogni prospettiva di ritornello punkettone e riff di facile presa. In “Convertible Balloon” l’anti-folk di Micachu & The Shapes sbarca in spiaggia per un’ineffabile wave afro da nipoti tossicodipendenti dei Talking Heads. In “Green Eyes” inseguono i Liars in una fuga autostradale verso il nulla. Suono pulito, ma senza esagerare. Fuzz straripanti in cui annegano xilofoni e voci dall’aldilà. L’abietta “Mickey Mouse” suona invece in tutto e per tutto come il Wavves che si conosceva. Quello che con i No Age si contendeva il primato nella controversa scena shit-gaze.
Chitarre che sembrano suonate da cani, voci stonate che a tratti farebbero rabbrividire, ma emotivamente Wavves raggiunge l’apice della sua giovane e discussa carriera. “Baby Say Goodbye” è il sigillo finale che lo accoglie a buon diritto nel disgraziato club dei neo-psichedelici d’America. C’è chi si piangeva addosso con Kurt Cobain negli anni ’90 e oltre.
Nel 2010 è meglio ghignarsela con Wavves.

(Piero Merola)

Collegamenti su Kalporz:
Wavves – Wavvves
Nirvana – Nirvana
Nirvana – Nevermind

(26 settembre 2010)

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