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Una nuova finestra sull’interiorità frammentata e stratificata di Mike Hadreas
Il settimo disco in studio di Mike Hadreas come Perfume Genius è un’altra grande prova di maturità del cantautore, che prosegue e persegue un’evoluzione sonora e testuale necessaria e accuratamente preparata, che in qualche misura possiede al suo interno ogni tappa precedente del suo percorso artistico. Glory è un album elegante, raffinato e vorticosamente burrascoso, dove ansie, silenzi e speranze si rincorrono e si sfidano in un magma lirico e ritmico avvincente.
Nelle undici tracce che lo compongono, Glory apre una nuova finestra sull’interiorità frammentata e stratificata del suo autore e, inevitabilmente, in quella di ciascuno di noi. Diretto e poetico come al solito, lo stile compositivo di Hadreas si è sempre caratterizzato per la sua capacità di normalizzare gli estremi che il nostro animo deve sopportare e, pur con infinite difficoltà, tentare di equilibrare. Il disco precedente, Ugly Season del 2022, nato intorno a una serie di brani scritti come colonna sonora di un balletto, ne esplorava gli aspetti più cupi e psicanalitici, non diversamente dai progetti precedenti, da Too Bright a No Shape fino al culmine rappresentato da Set My Heart on Fire, che, tutti con declinazioni sottilmente differenti, cercavano di sublimare l’eterna lotta tra sé e gli altri ma anche e soprattutto i conflitti interiori e intestini; la cifra tematica di Hadreas, che spesso lavora per sottrazioni e dicotomie, ha il pregio di rivelarsi e di ricostruirsi in forme e in sfumature particolarmente affascinanti e mai prevedibili o fredde.
Anche per questo Glory, che ha la sua origine nel periodo pandemico e che di esso conserva in qualche modo alcuni strascichi pur non ponendolo mai al centro della narrazione, si danna terribilmente a cercare risposte riguardo a tematiche così care al suo autore e così intrinsecamente connesse con le crisi umane, sociali e politiche che stiamo attraversando oggi. La necessità di disconnettersi dal mondo che abbiamo intorno si scontra con la carica di ansia, quando non di terrore, di soffocare nel gregge o, al contrario, di scomparire entro le mura di casa, senza contare che la prima prigione da cui non possiamo sfuggire è quella che la nostra mente ha costruito per noi. Questo filo rosso serpeggia diabolico e intricato in Glory, modellando tra i suoi versi un sentimento di afflizione e di affanno che è uno degli impulsi che scorre profondo tra i solchi di questo album, che, infatti, rappresenta sia un tentativo di fuga da queste sensazioni negative sia una pietra d’inciampo per ricordarsi di esse e provare in qualche modo a sublimarle in un impegno artistico che è insieme terapia e segno del trauma.
L’incessante e sensuale lotta che anima e corpo portano avanti
Il punto di partenza musicale di questo nuovo sviluppo della poetica di Mike Hadreas è ben rappresentato dai primi due pezzi del disco. Il pop avvolgente e lisergico di “It’s a Mirror” sembra arrampicarsi con urgenza e con testardaggine sulle nostre spalle come un monito che ci ricorda che le nostre paure potrebbero divenire fantasmi impossibili da scrollarsi di dosso «What do I get out of being established? / I still run and hide when a man’s at the door», canta Hadreas, e mentre lo fa non sembra sconvolto o scioccato ma, più semplicemente, pare prendere atto di una situazione divenuta ormai regola nella vita sua e in quella di molti di noi. L’altro punto di partenza tematico e melodico del disco è la successiva “No Front Teeth”, che vede la presenza della voce armoniosa e limata di Aldous Harding, una composizione che partendo da quei medesimi timori cerca di inquadrarli con animo fermo e di avvicinarli a lidi più luminosi: «Better days, nothing touch me / Light, it breaks on the wings of a dove», procede il pezzo, con il suo ritmo incalzante e caracollante, mentre raggi di luce inattesi emergono da una cornice di nebbia e di tristezza.
Come sempre accade nella musica di Hadreas, anche in questo disco, prodotto dal fedele collaboratore Blake Mills, l’elemento lirico e quello musicale si intrecciano, si equilibrano e si incontrano con soluzioni quasi sempre avvincenti, per addizione, per sottrazione o per opposizione. Squarci melodici irresistibili sono bilanciati da nervose esplosioni di synth nella cupa “Left for Tomorrow”, che sembra provenire da un universo di ghiaccio e di solitudine. Improvvise cariche percussive si avviluppano in potenti ramificazioni pianistiche nella ammaliante “Clean Heart”, mentre Hadreas canta che «I drag my life like a chain / Towing to a cradle held away», dove la voce galleggia in un tunnel emozionale nel quale è difficile orientarsi. Fumose passeggiate nel buio avvolgono la splendida “Capezio”, uno dei punti più alti di Glory, che perlustra i fondali dell’oceano col suo andamento artico e quasi regale, una danza che è sensuale e fisica ma anche ultraterrena e astratta, con Hadreas che si domanda «How long until our bodies climb too high / And I cannot bail?». Siamo ancora una volta di fronte a quell’incessante e sensuale lotta che corpo e anima conducono senza che mai l’uno voglia sopraffare l’altra, un chiodo fisso nella poetica e nelle intenzioni di Hadreas.
L’incertezza e il timore sono i cardini da cui Glory vuole muovere per poter impostare una riflessione meditata e profonda su cosa significhi essere vulnerabili e fragili in un mondo sempre più arrogante e spaesante. Non ci sono spasmi improvvisi che tentano di rifuggire questa condizione: Hadreas, qui come altrove, sa di dover convivere con questi sentimenti contrastanti e con queste paure ataviche, e passo dopo passo accetta ciò con un sorriso beffardo e con un piglio risoluto. In questo panorama di confusione e di dubbio, realismo e fantasia si incontrano a metà strada e crescono sfamandosi a vicenda nella musica e nei testi. La calma tormentata da ansie sotterranee di “Dion” suona come un sogno a occhi aperti che potrebbe in pochi istanti trasformarsi in un incubo. La pace ambigua e incerta di “In a Row” si nutre di quell’universo rarefatto in cui la tranquillità e il caos sono ancora in conflitto e non riescono ad accordarsi, un luogo, per Hadreas, in cui riflettere e attendere. Di questo conflitto la conclusione del disco, apparentemente pacificante, rappresenta soltanto un momento di pausa, una tregua un po’ zoppicante che è pronta a terminare da un attimo all’altro: breve e incisiva, “Glory” porta a termine l’intero progetto con poche parole taglienti immerse in un liquido amniotico di apprensione e di desiderio: «Guest of body», canta Hadreas dialogando con il pattern sonoro spoglio che lo attornia, «Now in quiet glory / Finding shade». Il pezzo sintetizza quella condizione di bagliore e di buio che riempie e sconvolge l’animo di Hadreas e con esso la musica che da lui nasce e cresce.
81/100