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Sorprese spiazzanti, idiosincrasie ambigue e sottili, battaglie contro i colossi dello streaming, dissing nel mondo del rap, dischi pop che definiscono non solo un’estate ma un intero periodo storico, celestiali e inaspettate apparizioni, solide e piacevoli conferme, rivoluzioni e restaurazioni: anche in questa – ennesima – strana e confusa annata musicale sono stati pubblicati tante ottime canzoni e tanti grandi album – vuoi per la loro intrinseca qualità, vuoi per l’ambizione dei loro autori, vuoi per l’attesa quasi messianica che si era loro creata intorno -, opere che, più di altre, sono stati capaci di scolpire e di modellare le nostre giornate, le nostre riflessioni, le nostre – addirittura – decisioni. Oltre alle canzoni e agli album troverete anche dieci consigli cinematografici, all’interno di un panorama, però, che ho perlustrato decisamente meno a fondo di quello musicale.
TOP 20 SONGS OF 2024
20) Zach Bryan, “Pink Skies”
L’emozionale midtempo di “Pink Skies” è una finestra aperta sull’arte e sull’anima di Zach Bryan, che nel suo quarto album The Great American Bar Scene riflette sulle assenze, sul tentativo di superare le difficoltà e sul ricordo di un passato in cui si viveva ignari dei lutti e dei drammi. «The kids are in town for a funeral / So pack the car and dry your eyes» canta Bryan con voce quasi spezzata eppure convinta e delicata. Il dolore che traspare da queste liriche si unisce a una melodia tiepida e dolce che riesce quasi a far scivolare via la tristezza per lasciare spazio a una speranza di rinascita.
19) Cassandra Jenkins, “Petco”
In “Petco”, come in tutto il suo My Light, My Destroyer, la cantautrice newyorchese Cassandra Jenkins è concisa e diretta: se ci allontaniamo dalla natura perdiamo noi stessi e dimentichiamo le nostre qualità e i nostri reali obiettivi. La stessa Jenkins, nel presentarci il brano, ha parlato di quell’«uncanny malaise inherent to a place that puts a price tag on nature», dove non viene cancellata, però, la voglia di coltivare una speranza di ritrovarsi ancora una volta insieme, tra simili e fianco a fianco alla natura, per ricordarsi che il luogo dal quale veniamo e quello verso il quale viaggiamo non sono per nulla distanti.
18) Cindy Lee, “Kingdom Come”
«This tune is about missing your friends», dice Patrick Flegel, aka Cindy Lee, mentre introduce “Kingdom Come” durante un concerto a Washington nel novembre del 2022. Straniante, ipnotico, fiabesco e a tratti anche inquietante, Diamond Jubilee, il disco in cui è contenuto, è quasi impossibile da sezionare, e andrebbe vissuto, nonostante la lunghezza, come un flusso unico, un fiume il cui corso perpetuo continua ad alimentare un mare infinito e sempre diverso. Tuttavia, alcuni brani spiccano e rimangono in testa sin dal primo ascolto. Uno di questi è proprio “Kingdom Come”, che ha come suo fulcro la nostalgia verso un passato forse non troppo lontano che scava un solco gigantesco nell’animo del narratore. La tristezza, però, non prende il sopravvento, e il quasi ironico augurio di «hear your voice again» e di «see your face again» diventano un mantra per andare avanti senza troppi rimorsi e con un mordace sorriso.
17) Geordie Greep, “Holy, Holy”
Lontano dai suoi black midi, Geordie Greep si allontana solo apparentemente anche dalle sue radici post-rock decidendo di utilizzarle come punto di partenza per intraprendere un nuovo percorso musicale mescolandole con un art-pop scoppiettante e massimalista, che pare strizzare l’occhio a ritmiche caraibiche e a immaginari cinematografici e teatrali che la sua voce esplorano e modellano con tempestosa veemenza, e anche il video che accompagna il pezzo sembra dimostrarlo. Pur non abbandonando mai quel math-rock abrasivo che il suo gruppo ha saputo sagomare con grande mestiere, “Holy, Holy” è uno scoppiettio di colori melodico e caldo. Il tema che affronta, un uomo che cerca a tutti i costi di sembrare un mandrillo ma che in realtà deve pagare qualcuna per farselo dire e per farlo credere agli altri.
16) Moses Sumney, “Vintage”
Moses Sumney è stato piuttosto attivo quest’anno, pubblicando alcuni singoli e poi un EP e partecipando alla compilation TRANSA al fianco di Anohni. “Vintage”, la prima uscita di questo insieme di pubblicazioni, condivisa proprio all’inizio dell’estate, è un tipiedo e appiccicoso R&B dove la splendida voce del cantautore si staglia su un fibroso tappeto di synth, chitarre e ritmiche avvolgenti che pare un tuffo negli Anni ’90 di quel genere, come implicano alcuni versi, per esempio il distico in cui Moses canta «I’m going back to 1993 / When I get my fingers on a time machine», e anche il bel videoclip dimostra. Fantasmatiche e soffuse, le vibrazioni che “Vintage” dipinge si confanno perfettamente alle atmosfere mature e concilianti di questa nuova fase artistica di Moses.
15) Mount Eerie, “Non-Metaphorical Decolonization”
«Let this old world shatter / And transform» canta Phil Elverum con tono combattivo in “Non-Metaphorical Decolonization”, diamante di folk-rock infuocato nel quale si tesse uno dei fils rouges del suo Night Palace, più di ottanta minuti di riflessioni e di confessioni che prova a conciliare i dubbi e i timori del suo autore con quelli dell’umanità intera. In “Non-Metaphorical Decolonization” un vagito infuocato di rock sabbioso e pulsante si disgrega in un lamento folk che è insieme pianto e preghiera. Elverum ha descritto il brano come «a clear voice bringing down an unambiguous hammer onto the ground of here and now» che diventa una condanna nei confronti della disonestà e dell’ignoranza dell’essere umano che è sempre pronto a perdonare sé stesso e a non mettersi quasi mai in discussione. Le tensioni affilate che il pezzo crea dal primo secondo all’ultimo ne sono un perfetto ritratto.
14) Beth Gibbons, “Floating on a Moment”
Se nel vero e proprio debutto solista di Beth Gibbons, Lives Outgrown, pubblicato quest’anno, è difficile estrarre un solo brano come particolarmente significativo e riassuntivo del progetto, è altresì vero che “Floating on a Moment” è probabilmente l’unico pezzo del geometrico e ostico puzzle che è quel disco che assume un valore e una potenza egregi anche fuori dal suo recinto. L’album, infatti, è viscerale e cerebrale al tempo stesso, riuscendo a creare un interessante e originale equilibrio tra questi due estremi musicali e filosofici. “Floating on a Moment” è un trip-hop cadenzato e avvolgente che ti trascina nei suoi contorni sfumati e slavati, dove «No one knows, no one can stay».
13) Julia Holter, “Spinning”
“Spinning” è probabilmente l’apoteosi della poetica dell’ultimo lavoro di Julia Holter, che è un’evoluzione laterale del suo percorso fin qui, al quale resta coerente aggiungendo qualche sfumatura inedita in più. Il suo recente Something in the Room She Moves probabilmente non è neppure il migliore disco della sua carriera: questo ci dice molto sulla qualità mozzafiato delle sue pubblicazioni. “Spinning”, che subito scalda l’ascoltatore con un ritmo martellante e disorientante, è un caleidoscopio di immagini e di sensazioni. Holter chiede, quasi implorandolo, di «Let me move, let me roll», mentre, cosa che anche il videoclip rappresenta, cerca di liberarsi da ogni rete che la avviluppa e di librarsi in una dimensione più eterea e sognante di quella da cui cerca di fuggire. Il suo art-pop continua a splendere e a convincere riuscendo a essere diretto senza mai perdere quella profondità che lo contraddistingue da sempre.
12) Vampire Weekend, “Mary Boone”
La genialità e l’arguzia della penna di Ezra Koenig sembrano non conoscere argini e Only God Was Above Us, lo splendido disco che i suoi Vampire Weekend hanno pubblicato quest’anno, ne è l’ennesima dimostrazione. La magia incantata di “Mary Boone”, che evoca il nome di una nota collezionista d’arte newyorchese condannata qualche anno fa per evasione fiscale, è una dolce richiesta di essere notati e apprezzati. La menzione alla stilista è un semplice punto di partenza che serve a Koening a dare il via a un memorandum di connessioni e di immagini, alcune, forse, autobiografiche, altre, invece, fittizie, dove, tra Jersey, Queens e Brooklyn, compaiono, come fantasmi, icone russe, raffigurazioni di Shiva, architetti giapponesi, dervisci. Il coro aulico che caratterizza la parte finale della canzone rende il brano ancor più memorabile. Ascoltarla dal vivo, come ho potuto fare di recente a Parigi, è a dir poco emozionante.
11) Kim Gordon, “I’m a Man”
Glaciale e tagliente, la contorsionistica e laminata “I’m a Man” è un punto di snodo cruciale dell’eccezionale The Collective, il secondo album solista di Kim Gordon. L’ex Sonic Youth reinventa ancora una volta le sue sonorità mantenendole fedeli allo stile e alla poetica che hanno sempre contraddistinto le sue composizioni. Alienazione e disagio si alternano a improvvisi aneliti alla libertà e alla speranza in un mosaico bipolare di timori e di miraggi. Non rinunciando mai né alla sua vena melodica parzialmente ma tangibilmente pop né alle sue inclinazioni noise e avanguardiste, “I’m a Man” e l’intero album conservano questi elementi dando vita a un’opera che li mescola e li equilibra in un modo una volta ancora rinnovato e originale, che per l’ennesima volta spiazza chi l’ascolta. Camminando sempre più vicina all’universo dell’elettronica e addirittura dell’industrial, in “I’m a Man” Kim Gordon ci ricorda che la sua propulsione a sperimentare e a non guardarsi mai troppo indietro è uno dei suoi punti di forza maggiori. Qui questo efficace mix riesce a diventare la colonna sonora perfetta per la storia di un uomo insoddisfatto e tossico che non riesce ad ammettere a sé stesso di essere tale.
10) Kendrick Lamar, “Not Like Us”
Il trionfo definitivo di Kendrick Lamar nel dissing che sembrava ormai senza fine tra lui e Drake che ha caratterizzato la scorsa primavera è il momento degli applausi conclusivi: il traguardo arriva alla fine di una partita stravinta da Kendrick e rappresenta la pietra tombale di questo “sottogenere”. “Not Like Us”, infatti, è un rap cadenzato e tagliente puramente West Coast, definito da una ritmica e da una linea di basso pungenti e dinoccolate e levigato da pianoforte e violino, che spara addosso all’ascoltatore tutti gli improperi e le critiche rivolti al destinatario del pezzo, dalle presunte accuse di pedofilia agli incidenti con J. Cole e Lil Wayne, dalle amicizie sospette che ha coltivato negli anni fino alla sua identità culturale. Spassosa, sagace e musicalmente dirompente, “Not Like Us” ci lascia divertiti e spiazzati, se non quasi a disagio, risultando il pezzo hip-hop più rilevante non soltanto dell’anno ma, forse, anche di questo decennio finora.
9) Mannequin Pussy, “Loud Bark”
“Loud Bark” è uno dei momenti più ruggenti e magmatici dell’ottimo I Got Heaven, un continuo di crescendo e discese che rendono il suo scorrere di fronte agli occhi dell’ascoltatore una serie di montagne russe emozionali. Una chitarra spettrale introduce il brano verso un tunnel oscuro di fantasmi e di demoni. La voce di Marisa Debice, che entra quasi di soppiatto e ben presto aumenta nella sua intensità mentre aumentano anche le parole contenute nei versi, contribuisce a creare una situazione di tensione e di indecisione che esplode nel potentissimo chorus, dove l’ipnotica ed esorcizzante ripetizione del titolo del pezzo contribuisce a rendere il panorama ancora più angosciante. Questo è ciò che i Mannequin Pussy sanno fare meglio di chiunque altro in questi ultimi anni: far esplodere le contraddizioni delle storie che raccontano insieme alla musica che vi costruiscono intorno, dipingendo scene drammatiche e talvolta catartiche che, come in questo splendido brano, entrano dritte nella pancia di chi le ascolta rapito.
8) Nilüfer Yanya, “Just a Western”
L’elettro-pop seducente e malizioso di Nilüfer Yanya emerge in tutta la sua maturità e versatilità nel bellissimo My Method Actor, il disco probabilmente più coeso al suo interno e coraggioso della giovanissima cantautrice britannica di origini turche. “Just a Western” è una gemma d’altri tempi che sa essere a suo modo underground e pienamente inquadrata nel contesto mainstream senza risultare banale o già sentita. La voce profonda di Yanya si staglia su un ritmo tagliente e frammentato scandito da pennate di chitarra discontinue e pulsanti e da elementi percussivi altrettanto singhiozzanti e spezzati. L’interpretazione che la performer regala è sincera e sentita: «‘Cause there’s no way in and there’s no way out / There’s no getting off this hook», canta nella seconda parte del pezzo, quasi rapita dai versi che sta pronunciando. Per tutto il brano il suo tono rimane quasi sussurrato, estremamente simile a quello di Sade, mentre il dialogo tra gli strumenti procede in vari crescendo e calando che sembrano rincorrere Yanya e il suo onirico timbro.
7) SZA, “Saturn”
Il ritorno di SZA con “Saturn” è la consapevolezza di chi non ha più nulla da dimostrare e può permettersi di divertirsi e di intrattenere il pubblico con ciò che desidera condividere al mondo senza obblighi contrattuali prestabiliti o linee artistiche già tracciate. L’R&B seducente e ipnotico di “Saturn” è una sorta di coda ideale dello splendido SOS che la performer aveva pubblicato nelle ultime settimane del 2022, fumoso e romantico nel suo incedere rilassato e conciliante, dove SZA si pone domande sull’inferno, sul Nirvana e sul karma senza riuscire a trovare una risposta definitiva, anche se esclama con certezza che «There’s got to be more, been here before».
6) Jane Remover, “Magic I Want U”
Il rock granitico e riottoso di Jane Remover raggiunge l’apice della sua potenza e della sua capacità di destabilizzare e fagocitare chi ha di fronte in “Magic I Want U”, uno dei singoli più affascinanti e scoppiettanti dell’anno. Ritmica, chitarre e synth costruiscono un muro di suoni e di vibrazioni che sembra doversi abbattere su di noi da un momento all’altro. «I build a world from every vision / It’s takin’ every inch of my body», canta in questo tripudio electro-rock Remover, dimostrando di avere, ad appena ventun anni, un controllo e una chiarezza di intenti della propria idea di musica esemplari: un hyper-pop solo apparentemente granitico ma in realtà pieno di fragilità e di delicatezze corre come un treno dall’inizio alla fine, finché le orecchie dell’ascoltatore non diventano un tutt’uno con l’energia e con i palpiti che emana la canzone.
5) MJ Lenderman, “Wristwatch”
Manning Fireworks è il disco della maturità di MJ Lenderman, che segna la sua definitiva affermazione nel panorama cantautorale folk-rock contemporaneo, presenta numerosi episodi memorabili che si intersecano e si susseguono magistralmente costruendo un album poderoso e potente. “Wristwatch”, che ne è uno dei momenti chiave, è un rock torrido e gelatinoso che si irradia dalle acide pennate della chitarra elettrica e dalla voce levigata di Lenderman che mette a nudo tutte le ridicolezze e vacuità dei machos di questa fase storica spesso contraddistinta da superficialità e ipocrisie. Il ricco e arrogante self-made man con una «beach home up in Buffalo» e una «houseboat docked at the Himbo Dome» nel momento stesso in cui si vanta della sua «funny face» che gli procura denaro non si rende per nulla conto della sua irrilevanza.
4) Laura Marling, “Patterns”
Il soffuso e pacato folk di Laura Marling raggiunge vette straordinarie nel suo Patterns in Repeat, che è probabilmente l’album più riuscito e al suo interno coeso della carriera della giovane cantautrice, che già aveva dato alle stampe una serie di dischi notevolissimi. In questo nuovo lavoro la dolcezza e l’eroismo che implicano e sottendono la recente condizione di maternità si intersecano, in maniera talvolta conciliante, talvolta spigolosa, con le paure e le ansie che essa porta con sé in maniera intrinseca. “Patterns” è un folk dalle tinte quasi magiche, scarno e fiabesco nel suo dipanarsi intorno a noi grazie ai delicati arpeggi chitarristici. La voce di Marling si fonde letteralmente con lo spazio creato da queste note poggiate appena sul suo timbro caldo e sicuro. «You’ve tried to tell them, but you’re lost for words / ‘Cause it’s so absurd, how good», canta Marling quasi incredula nel meravigliarsi delle bellezze che la circondano e di tutto quello che, tragicamente, può da un momento all’altro farle svanire, lasciandoci soli a pensare come e perché «we’re patterns in repeat».
3) Charli XCX ft. Lorde, “Girl, So Confusing”
Già nella sua versione originaria, pubblicata su BRAT, “Girl, so confusing” cerca di pavimentare la distanza apparentemente enorme tra due persone che provano, l’una nei confronti dell’altra, sentimenti contrastanti e niente affatto chiari. «Sometimes I think you might hate me / Sometimes I think I might hate you», canta Charli con cinismo e passione, e chi pensava che questo pezzo fosse diretto a Lorde aveva perfettamente ragione. Il remix, che comprende proprio Lorde al fianco di Charli e un’intera strofa scritta dalla prima proprio per rispondere alla seconda e dialogare con lei dentro la canzone e non solo, è un’esplosione di gioia rabbiosa nonché una vera e propria sessione di terapia di coppia necessaria e proficua. Alle esternazioni per nulla indulgenti nei confronti di sé stessa di Charlie si aggiungono i versi un po’ rap e un po’ pop della neozelandese sulle sue insicurezze, sulle sue paure, sui traumi che a lungo l’hanno bloccata. Nella sua travolgente corsa, “Girl, so confusing” è una delle confessioni più esaltanti e commoventi dell’anno.
2) Jessica Pratt, “Life Is”
Siamo soliti ascoltare la voce ipnotica e suadente di Jessica Pratt accompagnata soltanto da una chitarra acustica o da un pianoforte immersi in una coltre di fumo. Se in Here in the Pitch, pubblicato a maggio, questo tipo di atmosfere continuano a essere preponderanti, tali panorami sonori pulviscolari e misteriosi ampliano ulteriormente la loro densità e profondità in pezzi stratificati e ammalianti come “Life Is”, un cerchio psichedelico e denso che sembra scorrere di fronte ai nostri occhi parzialmente bloccato e confuso da un folto banco di nebbia. Aleggiano i fantasmi dell’Aquarian Age e dei Beach Boys. L’ossessione per il passare del tempo e per la sua potenziale e misteriosa circolarità affolla i pensieri di Pratt e contraddistingue l’andamento ammaliante e penzolante del brano, un sogno californiano senza tempo e lontano da qualsiasi spazio preciso, dove tutto ritorna in forme differenti e inusuali, dove il tempo non diventa nient’altro che una parola svuotata di qualsiasi significato preciso, mentre Pratt ripete che «Time is time and time and time again».
1) Waxahatchee, “365”
La solitudine e il bisogno di compagnia si intrecciano e si abbracciano in questa sublime ballata folk-pop intrisa di malinconia e di quella fumosa e ambigua sensazione che si prova quando volontà di agire e impotenza di cambiare le cose si incrociano. La canzone, breve e incisiva, è quasi una summa della poetica di Katie Crutchfield: l’insoddisfazione viene parzialmente mitigata dal sentirsi parte di un comune destino che è fatto di dolori e di gioie, e questo permette alla canzone di essere autobiografica e universale al tempo stesso: dal piano individuale si passa a quello relazionale e si raggiunge, infine, anche quello globale. «If you fly up beyond the cosmos / It’s a long way to fall back down», canta Crutchfield con un tono e con un piglio che raramente sono stati così convincenti e combattivi. La specularità delle azioni e delle intenzioni all’interno di una relazione della penultima strofa è così precisa e vitale da controbilanciare in qualche modo la tossicità della relazione stessa di cui la canzone è testimonianza. Bene e male convivono con ambiguità e incertezza, come ci viene ricordato negli ultimi versi, quando un distico come «We defy gravity again / Somehow make it out unharmed» diventa non solo un traguardo ma anche un sospiro di sollievo.
TOP 20 ALBUMS OF 2024
20) Yaya Bey, Ten Fold
Yaya Bey dà seguito al suo disco di debutto con un’altra prova solida ed esplosiva, un concentrato di funky e di R&B modernissimo e ragionato che tocca i temi più disparati e sa essere politico e sociale connettendosi alle radici più selvagge e primigenie di quei generi. Ten Fold è un disco che vuole cercare di staccarsi dall’idea di dover essere a tutti i costi contemporaneo e proprio per questo motivo risulta più diretto e sincero di quasi tutto l’R&B che affolla le radio e le classifiche. In 16 acquerelli emozionanti e schietti Bey esplora le proprie insicurezze e le proprie inquietudini cercando di aggrapparsi a ciò che di solido ha intorno a sé e dentro di sé – sopra ogni cosa la musica – e diventa, in questo modo, una vera e propria esaltazione della vita, in tutte le sue difficoltà e in tutto ciò che di buono e inaspettato riesce a regalarci.
19) Nubya Garcia, Odyssey
Il jazz dalle tinte soul e gospel di Nubya Garcia è un treno in corsa che attraversa un paesaggio spettrale fatto di frammenti e di impronte confusi che rendono impossibile a chiunque di effettuare lo stesso percorso a ritroso. Come recita il suo titolo, Odyssey, il secondo disco in studio di Garcia, è una vera odissea nello spazio: echi di Sun Ra e di Alice Coleman aleggiano ovunque nei dodici pezzi presenti nell’album. Garcia non smette di esplorare generi differenti da quelli di cui è permeata la sua musica, ma rispetto al suo disco di debutto questo aspetto è qui meno presente, perché a occupare il palcoscenico per la gran parte del tempo è un massimalismo cosmico orchestrale che rimanda a progetti contemporanei come quelli di Kamasi Washington e del Seed Ensemble senza che manchi mai un giusto bilanciamento con la tradizione, celebrata e reinterpretata con originalità e delicatezza.
18) Adrianne Lenker, Bright Future
In Bright Future, l’ennesimo grande album di Adrianne Lenker, la cantautrice statunitense leader dei Big Thief amplia ancora una volta lo spettro sonoro della sua arte: pianoforti e violini accompagnano spesso la chitarra e la voce di Lenker, sempre più calata in una dimensione folk-country che non rinuncia mai a voler condurre con pazienza e con precisione l’ascoltatore nelle pieghe più recondite e interne delle vicende che sta raccontando. Il poetico autobiografismo di “Real House” e di “Sadness as a Gift” si affianca a episodi come “Donut Seam” in cui l’universo personale e il destino dell’umanità intera si confrontano e a momenti come “Evol” nei quali il linguaggio e la musica diventano concreti e si “costruiscono” a vicenda in un inseguimento reciproco misterioso e straniante.
17) Mabe Fratti, Sentir que no sabes
L’universo musicale che ci circonda è sempre più variegato e globale e quelle che un tempo erano considerate le periferie della creazione artistica sono pian piano sempre più centrali e vivaci. La giovane artista di formazione classica Mabe Fratti opera a Città del Messico ed è già al suo terzo disco in studio. Il suo mix fatto di sperimentazioni avanguardistiche e dissonanti e di strizzate d’occhio alla tradizione e alla world music più pop riesce qui a raggiungere un punto d’arrivo mozzafiato. Brani come “Oídos” colpiscono proprio per la loro capacità di sintetizzare elementi sperimentali e richiami classicheggianti. “Kravitz”, il singolo che anticipava il progetto, è un dissestato percorso rock il cui ritmo ciondolante si frantuma di fronte ai nostri occhi mentre il testo esplora visioni paranoiche e inquietanti mentre Fratti si chiede se «Quizás haya oídos en el techo». Ci sono capitoli come “Pantalla azul” o “Márgen del índice” nei quali l’ascoltatore si trova precipitato in un sinistro gioco di frequenze dissonanti che accompagna un dialogo appassionato tra strumenti e voce. Per tutto il disco Fratti usa il suo cello come un prolungamento della sua mente.
16) Arooj Aftab, Night Reign
La poeticità di Arooj Aftab cerca sempre soluzioni melodiche articolate ma dirette: la compositrice riesce a creare accostamenti di note e di metriche mai banali e, anzi, sempre tese a chiedere all’ascoltatore un po’ di impegno e di concentrazione in più affinché possa davvero capire fino in fondo gli intenti e il messaggio della loro autrice e sia in grado di coglierli nella loro integrità e complessità. In Night Reign Aftab canta in urdu e in inglese, creando motivi che sembrano ricalcare quelli dei tappeti persiani o delle fiabe antiche e austere, quelle che ci danno l’impressione di essere nate con la nascita stessa dell’umanità. La genuina e geniale costruzione dei pattern ritmici, la meticolosa precisione con la quale gli strumenti dialogano con la ritmica e tra loro creando un caleidoscopio di colori e di echi, il folk, il jazz e il global che si intersecano e la voce fluttuante di Aftab rendono Night Reign un lavoro dal quale occorre lasciarsi cullare senza domandarsi dove ci si risveglierà.
15) Being Dead, EELS
I Being Dead sembrano provenire da un altro tempo o, forse, da una dimensione in cui il tempo nel suo senso cronologico non esiste. La musica contenuta in EELS ne è la prova più concreta: aggraziate soluzioni melodiche si intersecano con sprigionamenti di un rock sabbioso e letale. Il duo, formato da Falcon Bitch and Shmoofy, non disdegnando qua e là l’aiuto della bassista Nicole Roman, che li accompagna in tournée, confeziona un rock seminale e divertito che guarda sia alla centrifuga esplosività dei Pixies sia all’asciuta essenzialità dei Pavement. Alcune volte ci sembra di essere precipitati negli Anni Sessanta o Settanta, altre volte ci sentiamo trascinati nell’indie-rock garage dei primi Anni Novanta, altre ancora nulla ci è mai parso più attuale e vicina alle manifestazioni più intriganti e originali del rock contemporaneo. La potenza delle chitarre, l’apparato ritmico semplice ma efficace e la voce viscosa di Falcon Bitch dipingono passioni, desideri e inquietudini con la naturalezza dei veterani, particolarmente fulgidi anche grazie alla produzione di John Congleton, sempre estremamente attento a creare un sound originale e legato alla tradizione pop-rock del passato.
14) Ekko Astral, Pink Balloons
Il punk-rock degli Ekko Astral è un circo di vibrazioni potentissime e di scariche elettriche che non conosce momenti di calo o di quiete. Il debutto Pink Balloons non delude affatto le aspettative che circolavano intorno a questa band: in soli trentasei minuti la leader Jael Holzman e i suoi compagni di viaggio costruiscono una tempesta di rock acido e claustrofobico che tratta soprattutto, per citare un verso del potente singolo “baethoven”, del «pain of being myself». Ex giornalista, trans, in balia di un mondo che non ascolta le richieste di aiuto e che, anzi, tende a deriderle e a stigmatizzarle, Holzman trasforma questa delusione e questo disagio in una dichiarazione d’indipendenza combattiva, sfrontata e a suo modo solare. Il punk detonante di “sticks and stones” e la dolce e sognante ballata chitarrista “make me young” sono solo alcune delle tante facce, tutte di qualità notevolissima, che rendono il disco di debutto di questa band di Washington particolarmente infuocato, politico e, in un certo senso, incoraggiante: sentiremo ancora parlare di loro.
13) Beth Gibbons, Lives Outgrown
Il primo vero e proprio album solista di Beth Gibbons riparte da dove la sua storia con i Portishead si era fermata. Rispetto ad allora, il tempo oggi sembra trascorrere alla velocità della luce; tuttavia Lives Outgrown è un album che chiede di essere ascoltato con calma e con pazienza. Non pretende di essere compreso e digerito subito al suo primo ascolto: certe improvvise manifestazioni di bellezza mozzafiato – nelle melodie, negli arrangiamenti foschi, nel trattamento della voce e degli elementi ritmici sempre così ovattati e caldi – arrivano dopo parecchie sedute. In pezzi come “Floating on a Moment” o come “Whispering Love” Gibbons vuole ricordarci che il tempo – come quello, lungo, atteso per veder pubblicato il suo esordio da solista – non è che una concezione tutta nostra, una «condizione soggettiva necessaria», per citare Kant, «dovuta alla natura umana». Gibbons ce lo ricorda con dolcezza e con saggezza, attraverso soluzioni melodiche barcollanti e fibrose e paesaggi sonori lunari che sono insieme viscerali e cerebrali.
12) Vampire Weekend, Only God Was Above Us
I Vampire Weekend non sembrano in grado di fermarsi e di accontentarsi: ogni disco del gruppo è un’avventura originalissima e avvincente sia nei suoni che nelle tematiche. Il quinto album solista della band newyorchese vede Ezra Koenig e soci tornare a cantare della loro città natale, delle speranze cullate quando si è ragazzi che poi finiscono per scontrarsi con la realtà, delle radici ebraiche ed esteuropee del loro leader, del tempo che sembra stia per finire o che semplicemente si sta accartocciando su sé stesso rendendoci sempre più fragili di fronte a un mondo che ormai sta andando letteralmente in frantumi. Al centro delle storie che Koenig racconta emerge più di ogni altra cosa il tentativo lacerante e faticoso di districarsi in un mondo sempre più frammentato e violento, dove anche le più piccole verità diventano rivoluzionarie. In attesa che passino le «wars of winter» ci aggrappiamo a una speranza flebile e ciclica per quanto sappiamo bene che «the enemy’s invincibile».
11) Mount Eerie, Night Palace
Phil Elverum dà ancora una volta un seguito al suo progetto Mount Eerie con Night Palace, doppio album di più di ottanta minuti che attraversa più stati d’animo e più sensazioni, cercando di far dialogare un piano narrativo autobiografico e personale con una serie di riflessioni più ad ampio raggio che allargano il discorso fino a renderlo un discorso errante e irregolare sulla natura dell’uomo e sul suo triste destino. Dalle peregrinazioni filosofiche di un pezzo devastante come “Non-Metaphorical Decolonization”, con il messaggio spietato e chiarissimo che veicola, e di un altro brano vagamente politico come “Co-Owner of Trees” agli splendidi ricami di gemme come “Broom of Wind” e “I Saw Another Bird”, Night Palace esplora dimensioni e sfumature che – sembra incredibile a dirsi – Elverum aveva approfondito solo parzialmente nei tanti capitoli precedenti della sua lunga e ramificata carriera. Riuscire a includere così tante dimensioni differenti – il folk onirico, il rock combattivo, arpeggi fiabeschi, distorsioni inaspettate – in un disco che sia coeso e coerente al suo interno è un risultato che solo pochi sono in grado di raggiungere.
10) Nala Sinephro, Endlessness
Il jazz elettronico avanguardistico e caracollante di Nala Sinephro non conosce limiti né possibili caratterizzazioni in Endlessness, il suo secondo, eccezionale LP, una distesa senza fine, come ben sintetizza il titolo, di impulsi elettromagnetici che creano un campo di note e di beat meraviglioso. In ogni sua sfumatura e in ogni sua vena scorre il jazz, ma dentro la musica della giovanissima belga con radici in Martinica e che vive e opera a Londra c’è molto altro, un mondo intero di acqueforti e di sketch che sembra sospeso nel nulla. Anche il titolo dei dieci pezzi, “Continuum”, ribadisce quale viaggio ultraterreno e fuori da qualsiasi spazio e da qualsiasi tempo attenda l’ascoltatore: un brano si incunea nel successivo senza soluzioni di continuità dando vita a un viaggio caldo, sereno e intricato, che risulta diretto e godibile anche nei suoi momenti più intricati e geometrici.
9) Nilüfer Yanya, My Method Actor
My Method Actor è il disco della definitiva maturità di Nilüfer Yanya. Sicura e concreta, la cantautrice britannica di origini turche sfodera in questo suo terzo album alcune delle prove vocali più memorabili della sua carriera. Sopra a tappeti sinuosi e pregevoli modulati da chitarre caldissime e da elementi percussivi e ritmici di una consistenza quasi impalpabile, Yanya dà il meglio di sé, interpretando con passione e con sincera dedizione il caos quotidiano e le emozioni contrastanti che i brani di My Method Actor descrivono. Ascoltando come Yanya interpreta ogni singolo verso, con una grazia nobile e seducente che si percepisce in modo tangibile dall’inizio alla fine, si sente quanto Sade e molto del pop e dell’R&B degli ‘80s abbia influenzato la creazione dell’album. In questo panorama particolarmente affascinante Yanya, «trying to escape and get to this blissful nowhereness» riflette sul corpo e sull’anima e, soprattutto, su quanto ci si deve occupare della salvezza della seconda senza trascurare i piaceri e le soddisfazioni che può dare il primo. In questo mix di terreno e di spirituale c’è la forza più primigenia di My Method Actor.
8) Charli XCX, Brat
Il disco più chiacchierato dell’anno è un condensato di hyper-pop luminosissimo e impossibile da non canticchiare anche solo dopo un ascolto. Il mondo intero ha consacrato Brat come qualcosa che va al di là della musica in esso contenuto: la grafica della sua copertina, le dichiarazioni e le interviste di Charli, l’utilizzo dell’espressione nel titolo, la diffusione virale di alcuni dei versi più epici e significativi del disco sono essi stessi un’opera d’arte. Parlando, quasi per incidens, anche della musica che vi è contenuta, non c’è un solo brano in questi quindici pezzi che potrebbe annoiare anche dopo cento ascolti. La potenza lirica di “Everything Is Romantic” è devastante. Il puro divertimento che offrono “Rewind” e “Apple” è il meglio che si possa chiedere a un brano pop di qualità oggi. L’asimmetrica e sghemba poeticità di “Von Dutch” e di “Girl, So Confusing” lasciano interdetti per la carica di originale e sorprendente bellezza che creano. Ogni canzone racconta una storia e un universo che Charli aveva già trattato nei suoi ottimi dischi precedenti ma che solo adesso, in questo contesto e in quest’opera, raggiungono il loro apice e la loro più compiuta realizzazione.
7) Laura Marling, Patterns in Repeat
Il folk onirico e fiabesco di Laura Marling tradisce le tematiche straordinariamente vivide e reali di cui tratta: la maternità vissuta come un meraviglioso dono ma anche come qualcosa da difendere in mezzo alle avversità che potrebbero scalfirla, l’amore genuino e sincero verso le persone che amiamo, il timore che abbiamo di perderle e, di conseguenza, di perderci. È proprio il cerchio della vita, il suo inesorabile ripetersi generazione dopo generazione, a catturare l’attenzione e l’ispirazione di Marling, che si staglia al centro di queste undici canzoni. Marling passa dall’universale al particolare e viceversa riflettendo sulle eredità che lasciamo dietro di noi, sui legami che si intrecciano nelle nostre discendenze, sull’inevitabile malinconia e solitudine che proviamo nel momento in cui sappiamo che ogni cosa è destinata a diventare un ricordo che a sua volta sbiadirà e svanirà. In pezzi tremendamente caldi come quelli qui contenuti – si pensi solo a “Patterns”, a “Looking Back”, a “Child of Mine” – Marling canta di tutto questo senza tristezza né timori, riuscendo a trarre da tali riflessioni pillole di saggezza, resilienza e coraggio.
6) Mannequin Pussy, I Got Heaven
I Got Heaven è la furia esplosiva dei Mannequin Pussy al massimo della loro convinzione e della loro intesa. Dieci brani di grandissimo profilo, dalle soluzioni melodiche e dalle tematiche estremamente affascinanti, accerchiano l’ascoltatore con un misto di esplosività graffiante e di melodicità sempre ricercata e sempre agognata. Dalle chitarre rabbiose di “Loud Bark” alle surreali visioni dello shoegaze accarezzato di “Nothing Like”, dalle esplosioni furenti di “Of Her” al pop nebuloso di “Split Me Open”, I Got Heaven dà all’ascoltatore tutto il meglio che i Mannequin Pussy hanno sempre saputo fare. Tuttavia Marisa Dabice e soci non erano mai riusciti a costruire brani così diretti, melodicamente accattivanti e variegati di una qualità così brillante in un disco prima d’ora. I Got Heaven rappresenta il mix più equilibrato e sapientemente organizzato dell’hardcore e del post punk visto soprattutto nei loro primi progetti e del rock d’autore che sfociava talvolta anche in un accattivante e sfaccettato pop del loro album precedente, Patience, che va alla ricerca di una libertà interiore e di un equilibrio emozionale che la musica cerca di catturare proprio attraverso le sue sinusoidi.
5) Kim Gordon, The Collective
Kim Gordon dà seguito all’ottimo No Home Record di cinque anni fa con un disco altrettanto coeso e maturo, dove il rock sperimentale e martellante ereditato dai Sonic Youth si fonde con synth feroci e taglienti che conducono l’album verso lidi di frequenze elettroniche spiazzanti e inquietanti che rappresentano pienamente e meravigliosamente le potenti tematiche – l’alienazione, il disagio, il non sentirsi al passo col mondo che ci circonda e con la sua frenetica velocità – di cui il disco tratta. In “BYE BYE”, l’apertura del progetto, Gordon quasi fa rap. Sfoga la sua rabbia ed esegue la sua vendetta in un rock gelido e frammentario come “Murdered Out”. Disegna un incubo violento e spaventoso in “Trophies”, dove sfrutta l’auto-tune nel modo in cui il cubismo rappresenta gli oggetti. Ci pone di fronte al delirante e lacerante mondo contemporaneo, dove ogni nostro desiderio è svuotato e risucchiato in un vortice di tutto e di niente, nella sussurrata e alienante “Shelf Warmer”. The Collective è un viaggio inquietante e tremendo in quello che siamo, stiamo diventando, stiamo agognando, stiamo (forse) combattendo.
4) MJ Lenderman, Manning Fireworks
Il cantautorato folk-rock di MJ Lenderman esplode in tutta la sua bellezza e poeticità nel disco a oggi più completo e coraggioso della sua giovanissima carriera. Manning Fireworks incrocia alcuni momenti del Neil Young più feroce e diretto e alcuni passaggi del Bob Dylan dei mid-‘70s. C’è dentro anche il percorso artistico che il chitarrista sta vivendo con i suoi Wednesday, di cui risuonano echi nel trattamento della chitarra e del basso e nel gioco di specchi che spesso voce, strumenti e ritmica riescono a creare, fondendosi e inseguendosi in un tracciato polveroso e tossico che non lascia scampo a chiunque ami questo tipo di sound. I testi di Lenderman sono puzzle intricati che non hanno lo scopo di essere compresi con chiarezza: è proprio quell’allegorica ambiguità che li contraddistingue a renderli così accattivanti e interessanti, e sono proprio lo scorrere torrenziale delle note chitarristiche, della voce gelatinosa di Lenderman e degli apparati ritmici martellanti a valorizzare ancora di più i versi del cantautore. Nel disco si canta di persone normali che possono risultare uniche per l’inesorabile ripetitività delle loro esistenze o di persone che si credono speciali ma che risultano ridicole per la loro inevitabile superficialità. In questo panorama l’amore, se e quando compare, diventa poetico solo quando è fotografato nella sua urbana semplicità e nel suo regale abbandono, come dimostra il verso «We sat under a half-mast McDonald’s flag». Nel divertente e scanzonato mondo al contrario che Lenderman dipinge il vero eroe è chi confessa che «I’ve been up all night with Guitar Hero / Playing “Bark at the Moon”».
3) Jessica Pratt, Here in the Pitch
La musica celestiale, ultraterrena e sinistramente fulgida di Jessica Pratt trasporta l’ascoltatore in un lunapark abbandonato proprio vicino a una spiaggia deserta in una giornata d’inverno. Quella di cui canta Pratt è una California ormai incontrovertibilmente scissa dal sogno intrinseco che da sempre ha portato con sé. Pratt descrive l’età della disillusione e della rassegnazione, il momento nel quale ci si accorge che le promesse di felicità e di serenità che la giovinezza portava con sé non sono state quasi mai rispettate. Alle note di chitarra acustica e di pianoforte che abitualmente aleggiano con sospetto e con abbandono nei brani di Pratt e che accompagnano la voce spettrale qui si aggiungono altri affascinanti elementi, come batterie soffuse avvolte in un raggio di luce forse paradisiaca e synth incalzanti e ipnotici. La pulviscolare circolarità del singolo “Life Is” è il biglietto da visita più chiaro e intrigante di questa nuova tappa del percorso artistico di Pratt: il suo mistero non diminuisce affatto pur potendo noi scrutare la sua natura ancor più da vicino che nei suoi dischi precedenti.
2) Waxahatchee, Tigers Blood
Tigers Blood è il ruggito di un’autrice che ha trovato passo dopo passo il sound perfetto per esprimere il suo stato d’animo e per edificare l’idea di musica che aveva in testa da tempo. Katie Crutchfield dà seguito all’eccezionale Saint Cloud con un altro progetto altrettanto sbalorditivo, che pienamente in linea con il disco uscito quattro anni fa aggiunge minimi particolari in un quadro che era già passato alla storia senza rivoluzionare alcunché e senza doversi ripetere. Rispetto al capitolo precedente, infatti, non cambia quasi nulla: ogni pezzo, però, esiste in una dimensione necessaria e spontanea e ogni cosa suona un po’ differente. È come se questo disco fosse la naturale e consapevole prosecuzione del discorso che Crutchfield aveva aperto quattro anni fa, un altro pezzo del puzzle senza il quale non si può comprendere veramente chi sia l’autrice che vi sta dietro. Al picco assoluto della sua ispirazione poetica e nel pieno del controllo della sua arte e della sua stratosferica band, Crutchfield ci regala un altro capolavoro dove la sua naturale bravura a scrivere melodie efficaci e fatate incrocia ancora una volta il suo talento a scrivere di tematiche affascinanti e profonde con una lucidità e una larghezza di vedute rarissime, come dimostrano gemme vicine alla perfezione assoluta come “Right Back to It”, “Lone Star Lake” e “365”.
1) Cindy Lee, Diamond Jubilee
L’intero Diamond Jubilee è stato a lungo un’opera in fieri. Patrick Flegel ci aveva lavorato per circa quattro anni quando, sul finire di marzo di quest’anno, decide di pubblicarlo come un’unica traccia di due ore su YouTube e come un download sul suo minimale sito web. Un lavoro stratificato e pieno di grande doctrina e labor limae sia sotto il punto di vista della qualità compositiva sia sotto quello dell’emozionalità e della poeticità dei testi, dei graffianti solo chitarristici e dell’interpretazione vocale in falsetto dell’artista, che porta in tour da anni questo progetto nelle vesti di una drag queen. Entrare in Diamond Jubilee significa abbandonare gli abiti che di solito indossiamo ed entrare in un universo fatato e magicamente inquietante, dove a scorrere sono le nostre vite, i nostri ricordi e le nostre speranze ma viste attraverso una lanterna magica o una camera oscura, un film in bianco e nero o uno spettacolo teatrale che ci riconduce prima a David Lynch, poi a Ingmar Bergman e infine addirittura a Marcel Carné. È una dimensione dove luogo e tempo non sono definiti: in questo cabaret ipnotico e alienante le canzoni che si susseguono arrivano come in un sogno febbrile e confuso. Parlano quasi tutte di amori finiti o mai nati, di amicizie perdute, di speranze cullate con una convinzione non particolarmente solida, di debolezze e paure. Sono tutte canzoni che sembrano esistere in una sfera priva di alcuna concretezza, e nel momento stesso in cui un brano sta per finire e sfuma nel successivo si ha il dubbio che in realtà non sia neanche mai esistito. Sta proprio qui, nel suo scorrere come un corpo alieno, difficile da etichettare e ancor più da decifrare, tutta la forza di Diamond Jubilee, che riesce a esistere in tantissime forme senza mai farsi davvero materiale e tangibile.
TOP 10 MOVIES OF 2024
10) Jane Schoenbrun, I Saw the TV Glow
Nell’alienante e visionario secondo film di Jane Schoenbrun horror, fantasy e filosofia si mescolano in una storia sul fandom che diventa ben presto una ricerca – ossessiva, inquietante e piena di ostacoli – della propria identità. La nostalgia per un tempo a noi non lontano rende la pellicola ancora più intrigante e travolgente, dove la regista opera per sottrazione anziché per accumulo, creando un montaggio visivo spetttrale e uno script a tratti enigmatico e a tratti volutamente caricaturale, in un puzzle lynchiano che crea uno scacchiere di citazioni e di riferimenti calato nel mondo contemporaneo; in esso la colonna sonora originale – con canzoni, tra le varie, di Phoebe Bridgers, Caroline Polachek e Florist – è parte integrante del messaggio dell’opera.
9) Radu Jude, Nu aștepta prea mult de la sfârșitul lumii
Caustico, ironico, tagliente e registicamente coraggiosissimo, questo capolavoro del cinema rumeno interseca cronaca politica e sociale, disperazioni familiari, cinismo capitalistico e una ricerca asfissiante e spesso infruttuosa di dolcezza e di comprensione. È una pellicola che sa far riflettere, spazientire e sorridere senza mai annoiare nonostante la sua lunga durata e una sequenza finale fissa – dai notevoli e spontanei virtuosismi attoriali e dialogici – di oltre mezz’ora. Il caos del mondo sembra propagarsi in maniera totalmente incontrollata e quasi diabolica nella pellicola, che non scende a compromessi né con la storia narrata né con i suoi personaggi. Il risultato è avvincente, poetico e felicemente disorientante.
8) Phạm Thiên Ân, Bên trong vỏ kén vàng
L’onirico realismo di questo opus magnum di Phạm Thiên Ân sta tutto nelle sue inquadrature ricercate, nel suo lento e pacato farsi spazio nella nostra mente e nel cuore e nell’animo del suo autore e dei personaggi, nel suo chiedere di essere aspettato con calma e con concentrazione. È una pellicola basata sui particolari, sugli incroci di sguardi e di parole rare e pensate e preparate bene prima di essere pronunciate, sui silenzi che si rapportano agli spazi nei quali sono immersi. Spettri, bagliori, ricordi che annegano nella difficoltà di essere rievocati affollano la vista e la mente del protagonista mentre si muove in punta di piedi nel suo villaggio d’origine, dove il passato e il presente devono obbligatoriamente incontrarsi.
7) Nuri Bilge Ceylan, Kuru Otlar Üstüne
Nuri Bilge Ceylan al massimo della sua maturità poetica e registica intesse un ricamo lirico ed esistenziale che raggiunge le profondità dell’anima e delle sue contraddizioni. La lunga durata del percorso non fa perdere neanche per un attimo l’attenzione e la curiosità nello spettatore: queste, anzi, crescono minuto dopo minuto nonostante il – o, forse e paradossalmente, grazie al – panorama ripetitivo e frustante in cui sono immerse le vite frustrate dei suoi personaggi. Questi paiono tessere di un puzzle che dà l’impressione di procedere attraverso casuali scherzi del destino che non conducono mai a una soluzione né a una felicità. Una felicità che, in fondo, è ben poco ricercata e attesa da coloro che si muovono in questo panorama che muta soltanto per lo scorrere delle stagioni.
6) Agnieszka Holland, Zielona granica
Zielona granica è il grido necessario che la regista 74enne Agnieszka Holland offre a un mondo sempre più impietoso, egoista e ipocrita. Questo grido emerge in tutta la sua violenza ferina e primigenia tra le pieghe del granuloso bianco e nero in cui la pellicola è immersa. Le persone che cercano di attraversare un confine diventano i tragici portatori di un disagio impossibile da scrollare di dosso e di una sfiducia cosmica nelle istituzioni e nella giustizia che inevitabilmente influenza le loro azioni e le loro sempre più scarse speranze. La foresta diventa un luogo di perdizione e di terrore e costruisce un paesaggio tenebroso e post-apocalittico che da parecchio tempo è una tremenda realtà.
5) Yorgos Lanthimos, Poor Things
A tratti comico, a tratti tragico, questo affresco disorientante e avventuroso dipinto da Yorgos Lanthimos grazie alle straordinarie performance attoriali di Emma Stone, di William Dafoe e di Mark Ruffalo è una giostra di emozioni fortissime e spesso contrastanti tra loro. In esso transumanesimo e femminismo si scontrano con il pragmatismo dello sfruttamento del proprio corpo e con la necessità di alimentare la sete del progresso e insieme dei desideri biologici del proprio corpo. Questa netta e titanica aporia dimora dall’inizio alla fine nelle pieghe della pellicola, marciando trionfalmente tra gli sguardi curiosi, attoniti, allucinati e divertiti dei personaggi stessi: nel caos della vita che li travolge ognuno cerca di ritagliarsi il proprio orizzonte di gloria e di far valere la propria teoria filosofica. Per tutti questi motivi Poor Things sa far riflettere ed emozionare.
4) Andrew Haigh, All of Us Strangers
Una frenetica ed euforica corsa contro un tempo che ogni tanto ci inganna e ci seduce, un tempo che sembra potersi fermare e far sospendere così le nostre preoccupazioni, è al centro dell’ultimo lavoro del regista britannico Andrew Haigh. Questa soffocante sensazione simile a quella che ci pervade dopo uno stranissimo sogno occupa le inquadrature e i dialoghi di All of Us Strangers quasi per tutta la sua durata. Lo fa con atteggiamenti contrastanti e contraddittori, fin quando l’euforia non si fa disforia e non costringe i personaggi a fare i conti con le loro fragilità e con le loro reali volontà. Portare a ricordare qualcosa di splendido e di misterioso ormai sepolto nell’inconscio significa anche condannare all’angoscia chi non riesce ad accettare che tutto ciò è tristemente destinato a sbiadire.
3) Jonathan Glazer, The Zone of Interest
Un incubo claustrofobico e terribilmente tangibile che si fa più grande e più tremendo minuto dopo minuto, un tunnel senza uscita nel quale persino ogni parte del montaggio sonoro ti fa precipitare sempre di più senza che tu possa opporre resistenza: questo è il capolavoro glaciale col quale Jonathan Glazer decide di parlare della Shoah. La banalità del male si manifesta nella sua sembianza più glaciale e naturale: la famiglia Höss risiede vicino ad Auschwitz e Rudolf Höss è il primo comandante di quella fabbrica della morte. Con la moglie e con i cinque figli fa piacevoli picnic e si occupa con trasporto del proprio giardino, il cui muro confina proprio con il campo di sterminio. I muri giocano un ruolo fondamentale nel film in quanto separano e al tempo stesso creano un punto di contatto tra differenti tipologie di orrore, quello del genocidio da un lato e quello della totale noncuranza di chi lo sta avallando dall’altro. Il diavolo è molto vicino a noi ed è una persona in carne ossa, e tutto ciò che di tragico e di impossibile da descrivere a parole è accaduto in passato può accadere di nuovo: la storia, purtroppo, non è mai stata una brava magistra vitae, e questo capolavoro ce lo ricorda ancora una volta.
2) Lila Avilés, Tótem
Un dramma familiare di gioie, dolori e speranze abita il secondo lungometraggio della regista messicana Lila Avilés, lo spaccato di una famiglia nella quale i preparativi per il compleanno di un giovane padre che sta per morire attirano la curiosità e la vivacità della piccola figlia, Sol, la protagonista di questo tenero e poetico film che filtra ogni immagine attraverso gli occhi di una bambina la quale scopre il mondo intorno a sé e impara a conoscere la felicità e le tristezze che lo costituiscono. Gli adulti che con lei dialogano, gli insetti, gli animali domestici e un pesce rosso sono la vita che si propaga e che si perpetua intorno a Sol, uno scenario di apparente tranquillità dietro alla quale si muove, come un’ombra spettrale che non ha alcuna pietà, la morte, che si scontra con la vitalità che i preparativi per la festa del giovane creano. I particolari del mondo che nota con così tanta attenzione e con così tanto trasporto Sol sono il rifugio più grande che si possa cercare per fare i conti con il lutto e rendono questo un film “corale”, per citare le intenzioni della regista stessa.
1) Sean Baker, Anora
Non capita di frequente che un film sappia far ridere, far piangere, fare arrabbiare e far ridere di nuovo nel giro di poche sequenze. Anora ti fa salire su una serie di montagne russe emozionali dall’inizio alla fine che confermano il bipolarismo insito nello script, nella magnifica – e sopra le righe – recitazione della protagonista e nei rigidi meccanismi mentali a cui sono condannati la maggior parte dei suoi personaggi, tesi quasi a infastidire lo spettatore, che non si aspetta mai un colpo di scena o un reale cambiamento delle traiettorie in cui sono lanciati. A colpire sono la spontaneità che tutti gli attori mostrano nell’interpretare le loro parti, tra dialoghi, scambi di sguardi e provocazioni così naturali da farci dimenticare per un attimo che siamo all’interno di una storia finzionale. Eccezionali sono anche la regia e la fotografia, che spicca per la candida nitidezza con la quale varie parti dell’opera sono state costruite: spicca su tutto la lunga e memorabile scena della lite violenta nella villa lussuosa in cui la protagonista aveva sperato per qualche tempo di poter insediarsi. Per un film con così tante scene in night club e discoteche gestire la luminosità non era cosa facile, ma il tocco vellutato del regista e quello del direttore della cinematography riescono a creare sequenze straordinarie anche e soprattutto in quei contesti. Anora conferma che Sean Baker, dopo l’eccezionale The Florida Project di ormai sette anni fa e il discreto Red Rocket di tre anni fa, è uno dei registi più poetici e concretamente appassionati al proprio lavoro della sua generazione.