Quando vengono a mancare certe figure, ci sentiamo prima di tutto colpiti; poi, irrimediabilmente persi. Come dopo un montante ben assestato, si gira a vuoto perdendo per qualche frazione di secondo ogni riferimento, salendo in una giostra che ruota, salvo urlare a chi ha i controlli di rimettere tutto a posto. Questo avviene a maggior ragione se chi scompare è una figura che pare essere li da sempre, non solo perché troppo importante per essere ignorata – tanto da essere definita per anni come “il più importante jazzista vivente” – ma anche perché fino all’ultimo viva, pulsante, intelligente, esploratrice e ispiratrice.
Wayne Shorter ha fatto la storia della musica – del jazz di sicuro, ma io direi anche qualcosa di più – e ne ha attraversato la storia, dagli anni con Art Blakley a quelli con Miles Davis – Shorter è l’unico che può fregiarsi del titolo di compositore a cui Miles non cambiava una nota dello spartito che gli portava in camerino -, passando per i dischi solisti con la Blue Note; e poi ancora i Weather Report con Joe Zawinul, e infine con il suo ultimo quartetto. Questa top 7 non vuole essere un “il meglio di”, ma una galleria sonora della carriera del sassofonista di Newark; un tracciato personale su un percorso prodigioso e profondo di uno dei più grandi musicisti e compositori del jazz; una figura fondamentale che ha profondamente influenzato lo sviluppo musicale afroamericano e non solo.
L’esordio per la Blue Note di Shorter è anche l’inizio di una intensissima attività discografica che lo porterà a registrare sei dischi nel giro di un anno e mezzo, in una girandola di sessions una più bella dell’altra. “Oriental Folk Song” è una lezione compositiva su come utilizzare melodie pentatoniche semplicissime (il tema) immergendole in un’armonia modale sempre in movimento, cosi da far riflettere quella melodia ogni volta sotto una luce diversa.
Registrato alla Viglia di Natale del 1964, “Speak No Evil” è probabilmente il disco più famoso del sassofonista; “Infant Eyes”, scritta per la figlia Myako, è uno dei suoi pezzi più celebri, una ballad dai toni impressionistici e dall’armonia inusuale, con una melodia delicatissima in dolce sospensione. Da custodire con un pizzico di gelosia.
“Genesis” è il secondo movimento di una suite programmatica composta dal sassofonista di Newark e ispirata a Dio, all’Uomo e alla Creazione. Il lavoro vede Shorter – qui alla testa di una formazione allargata – lambire non solo i confini della musica modale, ma anche, seppur a modo suo, umori free. Questo brano ne è un perfetto esempio, con le sue differenti atmosfere, tensioni e ritmi sospesi che ben simboleggiando qualcosa che si sta schiudendo e che si rinnoverà di continuo, come la vita.
Il “secondo grande quintetto” di Miles Davis ridefinì profondamente le concezioni armoniche, melodiche, ritmiche e improvvisative della musica afromaericana; di questa formazione, con i giovanissimi Herbie Hancock al pianoforte, Ron Carter al contrabbasso, Tony Williams alla batteria e il “vecchio” Miles alla tromba, Shorter era il principale compositore. Ispirato alle danze da guerra degli Indiani d’America, “Masquelero” è un vasto paesaggio dai colori notturni, con il quintetto che si rincorre e si ritrova come in un sentiero, e con l’armonia che si espande a perdita d’occhio man mano che il brano prosegue…
Il sodalizio di Shorter con il pianista e tastierista austriaco Joe Zawinul portò alla nascita di quella che è considerata da molti la band fusion – ovvero quel genere che mischiava il jazz elettrico con il linguaggio del rock e del funk – per antonomasia, i Weather Report. Dei tanti episodi citabili, “Elegant People” spicca per la sua eleganza sopraffina e il groove ineguagliabile. Pensata da Shorter come tributo alla musica latina, “Elegant People” è una passeggiata tra vicoli speziati e porte misteriose, dove ad ogni cambio ritmico si svela una smeraldina sorpresa.
Terminata l’esperienza con i Weather Report, Shorter continua a sperimentare con la strumentazione elettrica, stavolta virando decisamente verso territori più funk e sintetici. “Endangered Species” apre una trilogia di dischi a dire il vero non particolarmente amati dal pubblico e dalla critica, ma che mostrano come il sassofonista fosse un ineguagliabile compositore in ogni circostanza; in particolare, questo brano mischia funk, ritmica brasiliana e sensibilità pop in maniera cosi fine da fare quasi invidia.
L’ultima parte della carriera di Shorter lo vede impegnato con il suo spettacolare quartetto acustico, una delle migliori formazioni del jazz contemporaneo; con questa, il sassofonista rimodella in concerto vecchi brani del suo repertorio in un unicuum magmatico in equilibrio tra libertà e scrittura. “Orbits” dimostra quanto l’improvvisazione sia paradossalmente fondamentale anche per la composizione jazz: solo nel jazz l’interprete è sempre autore e mai esecutore. Dircelo cosi lucidamente a 80 anni e realizzando la musica forse più bella della sua carriera è un dono raro che ci ricorda – e forse questa è la lezione più importante di questo straordinario artista – quanto la creatività e la curiosità non si debba affatto e necessariamente arrendere al tempo.
Infine, una piccola bonus track: il pianista nostrano Enrico Pieranunzi ha iniciso un notevole disco dedicato alla musica di Wayne Shorter: “Plays The Music Of Wayne Shorter“. Vale la pena dargli un ascolto, fidatevi.
(Edoardo Maggiolo)
Grazie a Matteo Scalchi e Andrea Ruocco per l’aiuto nella stesura di questo articolo