CARLY RAE JEPSEN, “The Loneliest Time” (Interscope, 2022)

Carly Rae Jepsen, dopo due anni da “Dedicated (Side B)”, ritorna sulle scene musicali con il suo atteso sesto album in studio “The Loneliest Time”. Sulla cover del disco viene “dipinta” come un soggetto tipicamente caravaggesco ma solo negli intenti tecnico-estetici (natura morta, posa, impaginazione della foto/quadro e dei colori usati) poiché la sua espressione del viso non cela nessun tipo di malinconia o eterna solitudine; è il biglietto da visita perfetto per raccontare il suo lavoro, anch’esso figlio del suo tempo delineato da isolamenti natura-uomo e sociali, giacché la Jepsen non indaga una sfera intima e calorosa bensì accoglie ancora una volta la dimensione della totale spensieratezza del tempo libero, che sia in casa o qualsiasi luogo pubblico, ove l’unico obiettivo è quello di produrre endorfine per il benessere psico-fisico.

L’album si apre con una piacevole “Surrender My Heart” che propone ancora una volta Carly per il titolo di reginetta delle migliori tracce pop di apertura degli ultimi anni, secondo il mio più che modesto parere. L’artista conserva la sua etica lavorativa realizzando un progetto peculiare non per forza in linea con i trend musicali del momento, la si potrebbe definire come una Kylie Minogue degli anni ’10: come la cantante australiana che ha imposto una certa tipologia di sound per mantenere la sua identità artistica come durante tutta la sua carriera, così la Jepsen con “The Loneliest Time” resta nella sua zona di comfort ma non per superficialità o pigrizia, semplicemente per consapevolezza del saper fare il proprio e di non voler osare inutilmente.

Si percepisce a pelle che la Jepsen ama ciò che canta e il pathos della leggerezza d’animo che vi si ritrova nelle canzoni è trasmesso in maniera sincera anche agli animi degli ascoltatori.

L’album prosegue con “Joshua Tree” che da un piccolo assolo di chitarra diviene un’interessante traccia disco-funk, un invito dal ritmo spaziale che guida corpo e spirito all’esplorazione della propria libertà; è una tipica e lodevole caratteristica di Carly Rae Jepsen inaugurare ogni disco con le prime due o tre canzoni che sono d’impatto e che catturano dal primo secondo l’attenzione dell’amante della dance/ disco e lo guida con estremo interesse verso la metà dell’album dove iniziano ad apparire tracce leggermente più intime come “So Nice” quasi come se la cantante volesse proporre una piccola e necessaria pausa dalla pista di ballo.

All’interno del gradevole e fluido percorso di questo progetto una traccia sembra stonare nel coro ed è proprio “Beach House” (uno dei singoli estratti dall’album) ma non per il tema della canzone in sé (piuttosto frivolo e ripetitivo dato che parla di ragazzi pazzi, traditori e meschini) ma proprio per il semplice motivo che non appartiene a questo lavoro tant’è vero che ne spezza il ritmo e il senso. Ciò al contrario delle bonus track “Anxious”, “No Thinking Over The Weekend” e “Keep Away”, che tali non oserei definire perché vanno effettivamente a completare e abbellire ulteriormente nei particolari un album che fa del pop la sua firma. Tra queste, menzione particolare per “Anxious”, che riprende una caratteristica peculiare dell’artista e cioè delle armonie stratificate sostenute da un ritornello sublime che, per la prima volta, all’interno del progetto dona ai suoi ascoltatori un po’ il sentimento nostalgico dei tempi d’oro della “vecchia” dance”, ma anche “No Thinking Over The Weekend” è una vera e propria chicca: è una chiara descrizione dell’immaginario di spiaggia in un’estate rosseggiante, dove grazie al tramonto del sole cala la pace a suon di sintetizzatore e flauto come se Donna Summer avesse accarezzato per quattro minuti l’Utopia di Björk, perché laddove vi è la combinazione “estate – Carly” la dimensione del sogno è garantita.

Nonostante la bellezza, le bonus track non sono tuttavia il punto cardine e quintessenza dell’album: “The Loneliest Time (feat. Rufus Wrainwright)” è il ponte che sorregge questo delizioso album e, proprio a proposito di ponte, il suo bridge è il cuore sia della canzone che dell’intero lavoro. Perché affermo questo? Semplicemente i quindici secondi che lo compongono sono una temperata esplosione di disco e groove che la rendono momentanea regnante del genere e grandiosa attrice di un musical broadwaydiano nonché vera e propria star all’interno della sua stessa opera. Nessuno riuscirà a non muoversi al suo pronunciare “What happened was we reached the moon / But lost in space, I think we got there all too soon” seguito da gioiosi e teatrali violini.

In definitiva “The Loneliest Time”, pur non essendo capolavoro pop, è un piccolo invito a raggiungere la soavità dell’animo, il che è da sempre la missione di questo genere di musica.

72/100

(Giovanni Di Somma)