Inarrivabile Kendrick Lamar, un’opera in tre atti conquista Milano: il racconto e la scaletta

Kendrick Lamar, Milano Summer Festival, Ippodromo Snai, 23 giugno 2022

Non ci sperava più nessuno. Dopo la sua prima e ultima comparsa di inizio 2013 ai Magazzini Generali, Kendrick Lamar in Italia non era più passato per motivi che è inutile ripetere, in un paese che in controtendenza rispetto al resto del pianeta nell’ultimo decennio si è arroccato in un sovranismo musicale a metà strada tra maniera e nostalgia. Una tendenza che non ha risparmiato nemmeno i gusti mainstream, rendendo sempre più insostenibili economicamente non solo grandi festival, ma anche le tappe dei big della scena internazionale. Una data di Kendrick Lamar, dopo lo sfortunato annullamento della data romana nella maledetta estate della prima ondata pandemica, e per di più la primissima data del tour mondiale del complesso ultimo capolavoro “Mr. Morale & The Big Steppers” è stato un ottimo segnale, quasi clamoroso. Qualcosa sta cambiando? Forse, anche se il il fatto che ci fossero ancora tanti biglietti in cassa persino nel Golden Circle ci dice la strada è ancora lunga. La logica dei biglietti per l’area sotto palco a prezzo più alto oltre a dare un’idea di esclusività offrendo un colpo d’occhio non bellissimo fa certamente masticare un boccone ancora più amaro a chi ha speso 80 euro per avere una visuale non degna dello show e, a quanto si legge nei primi commenti e nelle impressioni condivise da amici e amiche presenti, una resa audio non all’altezza rispetto a chi aveva la possibilità o il privilegio di posizionarsi davanti. Per il resto il problema dei volumi nei centri abitati è una consuetudine che difficilmente sarà superata in tempi brevi e questo senz’altro ha reso tutt’altro che indimenticabile l’esperienza della maggior parte dei circa ventimila presenti (una stima a occhio). Ma come dicevamo, riuscire a riportarlo in Italia è stato di per sé un azzardo e miracolo e non tutto può andare sempre alla perfezione.
Sul piano prettamente musicale, il ritorno a Milano di uno dei più importanti e trasversali artisti contemporanei non è stata semplicemente, come qualcuno poteva nasare, la prova generale di Glastonbury dove si esibirà da headliner nel weekend.

Kendrick Lamar, personaggio autenticamente tormentato, cervellotico, introverso, ha riabbracciato simbolicamente il suo pubblico con un’opera narrata in tre atti con gli estratti dal nuovo album a dare l’idea di una sorta di messa in scena di una seduta di psicanalisi dove ripercorre il suo tortuoso percorso di uomo e artista. Al centro del palco, non a caso, troneggia uno specchio, tema centrale della sua narrazione e ricorrente più che mai in “Mr. Morale And The Big Steppers” fino alla traccia conclusiva (esclusa dalla scaletta dello show). Per la prima volta da un pezzo non è più da solo sul palco ma si fa accompagnare da un corpo di ballo molto elegante e ipnotico che a tratti ha ricordato quello di Solange come tipo di coreografie. La band, come sempre, c’è ma non si vede. Lo si capisce in determinati passaggi all’interno delle canzoni e i più attenti hanno percepito qualche colpo di rullante nel linecheck oltre al momento in cui Kendrick, prima di “LOVE.” si è rivolto verso sinistra interrompendo l’attacco iniziale. Come spesso accade nelle sue cose aleggia un certo mistero a riguardo (in DAMN. la backing band era al buio nella quinta di palco), ma ciò che conta è la serie di hit che regala a una platea davvero carico e coinvolta. A tratti sembrava di assistere a un liberatorio sfogo collettivo dopo due anni passati come sappiamo e soprattutto dopo quasi dieci senza poter vederlo vedere live in Italia.
Il primo atto segue il prologo “United In Grief” e infila subito addirittura 7 classici da quello che per certi aspetti ancora oggi è l’album più singalong, ovvero “good kid, m.A.A.d city”. La parola apoteosi non renderebbe giustizia: provate a immaginare in fila “m.A.A.d city”, “Money Trees”, “Backseat Freestyle”, “The Art of Peer Pressure”, “Swimming Pools (Drank)”, “Poetic Justice” e per non farsi mancare nulla “Bitch, Don’t Kill My Vibe”. Da restare annichiliti in poco più di venti minuti.
Lui è in formissima, come sempre concentrato e incontenibile come se per lui fosse davvero un esercizio più che un rituale catartico, nonostante fosse reduce da un’apparizione/performance mattutina alla Fashion Week di Parigi in ricordo dell’amico Virgil Abloh recentemente scomparso. Tra le nuove, ancora in rodaggio, spiccano senz’altro per impatto live “N95” e “Count Me Out”, secondo intermezzo che un po’ a sorpresa ci fa capire la trama della scaletta. Perché arriva il secondo atto, quello dedicato all’album che ha trasformato Kendrick Lamar da ragazzo prodigio di Compton ad artista concettualmente multidisciplinare su un piano della scrittura e della ricerca. Su “To Pimp A Butterfly” è stato detto tutto e dopo l’uno-due radiofonico “King Kunta” e “i” arrivano le tre tracce più politiche di questa scaletta-flashback “Alright”, “Institutionalized” e “The Blacker The Berry” a incendiare letteralmente l’Ippodromo. Trattenere l’emozione in questo trittico, parlo personalmente da chi aveva avuto modo di vederlo già tre volte, è stato molto difficile, non solo per l’ideale colonna sonora di un’epoca quale la prima della sequenza, ma soprattutto per le ultime due che non sono così scontate in scaletta.
Si potevano, a essere esigenti, chiedere altri due brani da quel disco che spesso dal vivo paga un mood tutto suo e omogeneo rispetto agli altri, ma ci si accontenta. Anche perché da “DAMN.” disco che inizialmente ha sofferto l’eredità dei due predecessori ma che tuttora si rivela a livello, ne arrivano altre 7, inclusa “BLOOD.” a fare da prologo, eseguita per la prima volta nella storia dei suoi tour. “DNA.”, “ELEMENT.”, “LOYALTY.”, “LUST.”, “HUMBLE.” e “LOVE.” forse è ancora presto per definirli classici ma hanno un’aura di contemporaneità che ha contribuito non poco a consolidare il peso storico di una figura come Kendrick Lamar che mai come oggi sembra davvero non avere eguali tra omologhi rappresentanti della scena black. E non solo. Seguendo mentalmente la setlist, canzone dopo canzone, ci si rende conto di quanto abbia pochi eguali nella storia per la quantità di tracce sopra la media scritte in poco più di un decennio (senza pensare a quelle escluse dalla scaletta).
La chiusura è affidata all’emozionante “Savior” e prima di quella che rappresenta una delle tracce dai contenuti più attuali e “sociali” Kendrick Lamar si sblocca ringraziando i presenti e mandando a modo suo un appello all’emancipazione e all’uguaglianza. Nemmeno nei tempi della sua ascesa a icona ha preteso di diventare un megafono, un profeta, un influencer né tanto meno un opinion leader.
Oggi ancora meno. In un momento della sua vita in cui da trentacinquenne padre di famiglia non ha paura di svelare la sua fragilità passate e presenti.
Il magnetismo e il fascino di Kendrick Lamar in fondo è tutto qui, nella sua normalità.
Come canta proprio in “Savior” lui può sicuramente aiutare a farci riflettere, ma non va assolutamente considerato come un “salvatore”.
Per una generazione che non ha bisogno di idoli e idolatrie, in un’epoca dove i punti di riferimento si rivelano beffardi ed effimeri, non può che andare benissimo così.
Il 23 giugno 2022 resterà in un modo o nell’altro una data che ricorderemo a lungo.

La scaletta

  1. United in Grief
  2. m.A.A.d city
  3. Money Trees
  4. Backseat Freestyle
  5. The Art of Peer Pressure
  6. Swimming Pools (Drank)
  7. Poetic Justice
  8. Bitch, Don’t Kill My Vibe
  9. N95
  10. Count Me Out
  11. King Kunta
  12. i
  13. Alright
  14. Institutionalized
  15. The Blacker the Berry
  16. BLOOD.
  17. DNA.
  18. ELEMENT.
  19. Silent Hill
  20. LOYALTY.
  21. LUST.
  22. HUMBLE.
  23. LOVE.
  24. Savior