Un nuovo album postumo di Prince, “Welcome 2 America”, ci fa pensare e interrogare

È uscito pochi giorni fa Welcome 2 America, un album postumo di Prince ritrovato nel vaults del mito di Minneapolis che era rimasto inedito sin dal 2010, quando decise di non darlo alle stampe. Già il titolo provocatorio offre un affresco ironico degli Stati Uniti, ampliato e ribadito – coi suoi pregi e i suoi difetti – nei brani che compongono il disco. L’egemonia americana viene discussa e sfidata attraverso una spiritualità convinta e rinvigorita.

Al tempo stesso, e quasi inevitabilmente, l’album è ben lontano dai picchi del genio di Prince, che non a caso lo aveva ben presto dimenticato. Siamo chiaramente lontani dalle straordinarie pubblicazioni d’archivio degli ultimi anni (la raccolta Originals e le ristampe di 1999, Purple Rain e Sign ‘O’ the Times) che ci hanno permesso di ampliare il nostro sguardo su uno dei più eclettici e talentuosi artisti statunitensi contemporanei.

In un’analisi approfondita e informata, tra le più lucide lette in questi giorni, il New Yorker, per esempio, parla di questo disco come di un “regalo” e di un “tradimento” al tempo stesso, perché – come nota l’autore del medesimo articolo – l’album, che certo contiene una serie di canzoni piuttosto convincenti, che affrontano tematiche profonde – prospettano, per esempio, un futuro orwelliano per gli States ma presentano anche un lieve ottimismo basato sulla fede e sulla spiritualità -, ci fa riflettere su Prince stesso e sulla sua idea di musica e di industria discografica portandoci a chiederci se, Prince vivente, questo disco sarebbe mai uscito in questa forma. La domanda resta inevasa, ma almeno godiamoci ciò che ci viene offerto.