[LineaNota] Woody Allen, “A proposito di niente. Autobiografia”

Ci sono autori che si amano per il solo motivo di aver fatto parte di un momento, un attimo speciale e irripetibile della nostra vita, al punto, pensate la follia, di perdonare loro qualunque nefandezza, ogni passo falso e, in definitiva, l’imperfezione abietta del proprio privato. Che per quanto ci riguarda inficia un fico secco nel giudizio di un’opera, tantomeno nel dare patenti a destra e a manca su intere carriere.
Di Woody Allen si è detto tutto e il suo contrario. Delle sue vicende giudiziarie non siamo così esperti, né impiegheremmo questo spazio nella lettura certosina delle carte processuali. In questa sede importa solo che l’autobiografia dal titolo fin troppo modesto “A proposito di niente”, pubblicata in Italia per la benemerita casa editrice diretta da Elisabetta Sgarbi La Nave di Teseo, è un grande libro: la confessione di un uomo di ottantacinque anni arrivato al suo cinquantesimo film che ne ha viste di cotte e di crude. Fin da bambino, quando a Brooklyn grazie all’amatissima cugina, e prima alla sorella, iniziò a frequentare il bel mondo, fatto di cinema (soprattutto la champagne comedy), teatro (quello comico e satirico, ovviamente) e musica Jazz (delle origini, orchestrale e melodico). Niente romanzi, zero musei, e chi l’avrebbe mai detto. Solo fumetti e racconti gangsta. Più che altro perché leggere non faceva al caso suo, la noia che gli derivava dalla grande letteratura era indicibile. E poi la strada, l’intreccio dei destini di milioni di persone, l’anima di una grande città come NY, attraversata com’era dalla gioventù più vivace del secolo. Per il piccolo e giovane Allen la vita, insomma, era già tutto ciò di cui vivere. Prima di andare avanti approfittiamone per celebrare un altro eroe di quelle parti, l’anchorman con le bretelle Larry King, il quale diceva che per chi ci nasce, a Brooklyn, tutto il resto del mondo è come Tokyo. Lo stesso discorso crediamo valga anche per il nostro.

Il Jazz, si diceva. L’incontro è di pura estasi. Una folgorazione tipica di chi assiste al prodigio per la prima volta, e ne rimane segnato per sempre: “ricordo di essere andato al Roxy quando c’era la banda di Duke Ellington. Quando, finito il film, dalla fossa davanti allo schermo salirono i musicisti che suonavano Take a train, mi sentii scoperchiare la scatola cranica. Da quel momento, ogni pellicola ambientata a New York non poteva che piacermi”.
Una scoperta che Allen stesso rinnova ad ogni suo film, laddove valorizza la sceneggiatura utilizzando proprio la musica come “spalla comica”, nei dialoghi e nelle gag più spiritose, come contrappunto dialettico nella trama generale dei tanti lungometraggi della sua carriera. In “Manhattan” (1979), commedia geniale di pura poesia e umorismo, con poche parole di rara incisività, il protagonista si rivolge direttamente a noi spettatori invitandoci a prendere nota: “Beh, ci sono certe cose per cui valga la pena vivere. Ehm…Per esempio…Ehm…Per me… boh, io direi… il vecchio Groucho Marx per dirne una e… Joe DiMaggio e… secondo movimento della sinfonia Jupiter e… Louis Armstrong, l’incisione di Potato Head Blues e… i film svedesi naturalmente… L’educazione sentimentale di Flaubert… Marlon Brando, Franck Sinatra… quelle incredibili… mele e pere dipinte da Cézanne… i granchi di Sam Wo… il viso di Tracy”. Pochissime volte il cinema ha celebrato con tanta forza e sincerità un universo così fecondo, una specie di “scuola di Atene” rivisitata, a misura dell’odierna società dei consumi. D’altronde è tutta la colonna sonora a impressionare per bellezza e perfetta aderenza alle dinamiche della storia. Più volte è ripreso lo sperimentalismo di “Rhapsody in Blue” di George Gershwin, a metà tra overture classica e opera jazz, per non citare brani rielaborati da musiche originali di Sinatra e Ella Fitzgerald.

Un altro gioiello è “Midnight in Paris” (2011): evocazione romantica e fantascientifica della Parigi di inizio novecento, affollata di artisti e scrittori in piena Belle Epoque, celebrativa della grande cultura europea un attimo prima dello scatenamento bellico. Qui, è la bellissima e malinconica “Si tu vois ma mère” del grande clarinettista Sidney Bechet, americano di nascita e francese d’adozione, a puntellare l’intero film donandogli quella patina tanto suggestiva: un po’ perduta innocenza e un po’ spensierata allegria dei tempi andati. Il protagonista attraversa le strade della capitale francese come faremmo noi: alternando ingenua grazia a inadeguatezza naive. Con lui riconosciamo i tratti di una categoria sociologica peculiarmente ebraica, di cui lo stesso Allen fatica ad accettarne lo stigma. Simbolo del destino ebraico, reietto e paria, lo schlemihl si aggira con innocenza per il mondo cercando di strappare un qualche motivo che giustifichi la sua gloria terrena, invano. All’interno dell’autobiografia diversi sono i momenti in cui emerge l’incomprensione e lo stupore per le cose. Come nel caso della statua in bronzo costruita a Oviedo in suo onore: “mi piacerebbe poter dire di avere fatto qualcosa di coraggioso e di nobile a Oviedo per aver meritato questo onore ma non ho fatto nulla per meritare non solo un mio ritratto tridimensionale ma neanche un tale crudele accanimento (la statua era stata più volte vandalizzata). Oviedo è un piccolo paradiso, con l’unica macchia della presenza di uno schlemihl di bronzo”. Ragionando per analogie, e volendosi sbizzarrire, ce ne sarebbe di materiale per un ipotetico studio, ragionato e scientifico, sul rapporto amoroso tra Woody Allen e il Jazz, scomodando cultura afroamericana, ebraismo e chissà cos’altro. Noi, intanto, continuiamo a farci quattro risate con la storia della statua vandalizzata. Lunga vita schlemihl.

(Alberto Scuderi)