THURSTON MOORE, “By The Fire” (Daydream Library, 2020)

A un anno di distanza dal più che convincente “Spirit Counsel”, il chitarrista ex Sonic Youth ritorna con un album cupo e ambizioso, col quale, per l’ennesima volta, fa i conti con gli strascichi postmoderni e distopici della sua stratosferica ex band e continua, al tempo stesso, a cambiare e a nascondersi.

Anticipato dall’ottimo singolo “Hashish”, che apre il disco e ne è effettivamente il biglietto da visita, “By the Fire” assume sin dall’inizio i caratteri di una fuga mirata da qualcosa o qualcuno. I ritmi claustrofobici e densi non danno tregua a chi ascolta. A scarica di note chitarristiche oscure e fumose, che sembrano provenire da un incubo gotico, seguono trancianti e sferzanti curve rock sghembe, in pieno stile Sonic dei tempi migliori, quelli a cavallo della seconda metà degli Eighties e della prima dei Nineties. Accompagnato in alcune tracce dall’ex batterista dei Sonic Steve Shalley, Moore non abbandona mai quella cifra stilistica che l’ha reso il grande musicista e compositore che è.

Un abbecedario di suoni e visioni, mutuato, ovviamente, dalla sua storica band, avvolgono così “By the Fire”, un progetto non rivoluzionario ma in molti passi rivelatore, sempre appassionante, appassionato e avvolgente, una sorta di falò primitivo e sfrigolante che si autoalimenta nel fuoco dei sogni e dei desideri perduti. Un sentimento archetipico composto di fughe e ritorni si palesa in ogni brano dell’album, che è un disco sfilacciato e ramingo come forse è anche Moore. Siamo di fronte a un’opera discontinua, forse persino troppo lunga (più di un’ora e venti) ma, proprio per questa sua bulimia, omnicomprensiva e coerentemente incostante per volere del suo stesso creatore.

Nel catalogo di Moore la sperimentazione è centrale. Delle cavalcate infernali à la “Daydream Nation” sopravvivono sempre residui in ogni suo album solista, mai troppo evidenti ma viscerali e incendiari, mai fini a sé stessi, mai puro revival, sempre parte integrante del suono e della filosofia dell’artista. “By the Fire” è “solo” il suo settimo album, ma è in qualche modo una summa delle tante idee che hanno forgiato il suo stile. Alcune canzoni sono veri e propri viaggi cosmici, ambiziosi e incalzanti. La spirituale e lunghissima “Siren” e la spaziale “Venus”, per esempio, flirtano da subito con chi ascolta e lo portano in una terra sconosciuta e fiabesca. Anche i momenti più concreti e terreni, come “Locomotives” e la arcigna e minacciosa “Cantaloupe”, non lasciano spazio a distrazioni o a passaggi a vuoto. Pure i brani più tradizionali, come “Dreamers Work” e “They Believe in Love (When They Look at You)”, assumono una natura rilevante nell’economia dell’opera, risultando riusciti e incisivi. Registrato a North London, sua casa da ormai molti anni, “By the Fire” lascia la partita aperta. È un altro passo avanti nel mistero che è Moore.

Le influenze sono tante e si rincorrono nervosamente in un’atmosfera spesso buia e sinistra. Lo sferzante rock ‘70s dei Television si avvicina agli andamenti poetici di Patti Smith, le discese agli inferi in pieno stile Can si susseguono alle visioni acide dei primi Pink Floyd. Evocare spiriti da un oltretomba concreto pare sia lo scopo di quasi tutti i brani. I pezzi più lunghi e accecanti, come la monumentale “Breath”, vivono di momenti, passaggi improvvisi, istinti malcelati e graffianti. Così il disco, nel suo procedere fino alla interminabile “Venus”, si dipana di fronte ai nostri occhi come un tappeto che si mimetizza con la pavimentazione, mescolando le classiche tendenze mooriane a qualche novità inaspettata. Moore ha parlato di “canzoni pubblicate per un mondo in fiamme”. Che siano le fiamme di “On Fire” dei Galaxy 500, lo straordinario disco dal quale Moore ha scelto un brano da reinterpretare, pubblicato qualche giorno fa su YouTube? Non ci è dato sapere se vi sia un riferimento, ma ciò che “By the Fire” descrive è certamente un incendio.

73/100

(Samuele Conficoni)