YAEJI, “WHAT WE DREW 우리가 그려왔던” (XL, 2020)

Classe 1993, Yaeji incarna il prototipo perfetto del millennial: vissuta serenamente tra Stati Uniti, Giappone e Corea, graphic designer oltre che musicista, ha una propria label di abbigliamento e sul suo sito web si può costruire un salottino in pixel; i suoi visuals raccolgono l’eredità della vaporwave e si muove nelle community virtuali con la naturalezza di chi è nato e cresciuto in un mondo ormai inestricabilmente fuso con la tecnologia. Come tanti dei suoi coetanei iniziava l’hobby del DJing all’università, caricando i suoi primi pezzi su SoundCloud mentre imparava a districarsi tra i principali programmi di beatmaking. “New York ’93”, il suo primo brano ufficiale – pubblicato sotto l’etichetta GODMODE – usciva nel 2016, siglando la nascita di un sottogenere dell’house di cui ancora adesso la completa padronanza appartiene soltanto a Yaeji e che in “WHAT WE DREW 우리가 그려왔던”, uscito il 3 aprile per XL, arriva alla sua piena maturità: nell’album convivono, in sorprendente armonia, diverse direzioni stilistiche possibili e solitamente contrastanti tra di loro.

Difficile, infatti, individuare tutte le matrici all’origine dei quaranta minuti che risucchiano l’ascoltatore nella perfetta circolarità dell’album: andiamo da brani avvolti in un’atmosfera soffusa, ovattata e rarefatta che riecheggia la scena del ventennio dorato di Bristol compreso tra gli anni Novanta e gli anni Dieci, ma filtrata attraverso le atmosfere più solari e glam di New York, a quelli costruiti nella sofisticata triangolazione di influenze tra l’hip hop, la trap e il rap della Brooklyn dove Yaeji vive, esaltata dai featuring di Nappy Nina e altre amicizie dell’artista; con una novità importante introdotta in questo album, ovvero la patina inconfondibile di un K-pop in versione decisamente più dark rispetto alle poche hit che raramente sfondano il muro quasi impenetrabile di musica in lingua inglese o spagnola dell’Occidente e le minori concessioni allo smalto chillwave che permeava gli EP precedenti.

Nei testi ritroviamo il consueto zig-zag dal coreano all’inglese, due lingue dalle radici totalmente opposte che grazie a un tessuto omogeneo di suoni trovano equilibrio perfetto. Nel caso di Yaeji, la doppia lingua dei suoi testi non si può associare ai ritornelli in inglese o in spagnolo che molti artisti provenienti dalle minoranze linguistiche propongono nei propri pezzi per renderli fruibili a un pubblico internazionale: in più interviste ha chiarito che i versi in inglese corrispondono a ciò che desidera sia compreso da chiunque, mentre quelli in coreano rappresentano confidenze che non vuole svelare al pubblico più vasto. Un’attitudine che curiosamente ricorda l’hopelandic, il linguaggio inventato dai Sigur Rós: Yaeji considera la voce uno strumento tecnico deformabile alla pari di tutti gli altri suoni che, come essi, acquisisce un significato nell’immaginazione dell’individuo, ribellandosi alle convenzioni linguistiche collettive.

Nel mondo creato da Yaeji, gli unici in grado di comprenderla davvero fino in fondo corrispondono a una fetta estremamente piccola del mondo: tutti gli altri devono accettare la natura segreta e incomprensibile delle sue ipnotiche cantilene, insondabili come i mantra delle religioni orientali.

Alzando il margine di interpretabilità dei testi fino a renderli adattabili a ciascun individuo che vi si approcci – in un’eco all’anonimato della vaporwave, dove non esistono firme e opinioni ma soltanto griglie infinite di verità possibili, una per ogni essere umano – nasce la libertà di chi, ascoltando la sua musica, può cantare nel coreano di Yaeji la propria storia, qua e là intervallata dai brevi squarci in cui la sua narrazione sussurrata si apre al mondo: come in “THE TH1NG”, dove la cassa in quattro di un affollato DJset evocato dal ritmo senza tregua diventa occasione per interrogarsi sui confini tra un essere umano e un altro; o in “NEVER SETTLING DOWN”, ultima, esplosiva traccia dell’album in cui Yaeji confessa candidamente il lato oscuro e doloroso della vita che l’ha portata a diventare un’artista: “I’m never settling down/I’m never touching ground/…I’m never having to admit that I swallowed my feelings”.

Quella di Yaeji è una house ascoltabile in un piccolo club gremito quanto – in una curiosa re-interpretazione letterale del termine – soli tra le quattro pareti di casa. Ovunque ci si trovi, la si ascolta sempre e comunque con la sensazione di essere tra le confessioni di un diario intimo: ed è così che proprio in questa era di paura e isolamento, dove ogni individuo è costretto a fare i conti con la propria solitudine e il rifugio nella doppia identità virtuale dei social come unica possibilità di comunicazione, che la sua musica trova davvero spazio per brillare. Yaeji evoca il mondo di socialità che ci stiamo lasciando alle spalle senza ipocrisia, ma con una nostalgia sincera spogliata di ogni elemento superfluo che potrebbe renderla ingenuità: non torneranno più i tempi in cui ignoravamo cosa volesse dire non avere idea di quando andremo al nostro prossimo concerto, ma questo album è contemporaneamente un tributo al passato e la promessa al futuro che la musica cambierà insieme a noi. Anzi, sta già cambiando, e non ci lascerà soli.

80/100

(Claudia Calabresi)