PEARL JAM, “Gigaton” (Monkeywrench / Republic, 2020)

“Whoever said it’s all been said?”, canta Eddie Vedder in “Who Ever Said”, prima traccia di “Gigaton” undicesimo album dei Pearl Jam, come a voler lanciare un monito a chi li ha definiti un gruppo di cinquantenni che non ha più molto da dire, lontani dalle glorie degli anni del grunge. Caratterizzato da un’atmosfera densa, come se una nuvola pesante accompagnasse ogni singola nota, l’undicesimo disco dei ragazzi di Seattle esprime, per tutti i 57 minuti, una costante preoccupazione di fondo, un senso di necessità impellente, dove il tempo non basta per affrontare le numerose urgenze della nostra epoca quali la situazione politica e il cambiamento climatico.
C’è molto da fare – Much to be done – ripete Eddie ad oltranza nel finale di “Seven O’Clock”, brano in crescendo, una ballata a combustione lenta con armonie, synth e chitarre, una sorta di chiamata alle armi a colpi di giochi di parole e provocazioni, come quando contrappone il grande leader dei nativi americani Sitting Bull al “Sitting Bullshit” di Trump: “poi ci sono le stronzate sedute come il nostro presidente seduto”.
Il chitarrista Stone Gossard, in una recente intervista, ha parlato di come il nuovo progetto abbia necessitato di sette anni per vedere la luce, ma che senza dubbio racchiude in toto lo spirito del gruppo: “C’erano tante canzoni tra cui scegliere, Eddie negli ultimi due mesi ha selezionato e mixato le canzoni che sarebbero potute diventare quelle più speciali.Individualmente avremmo fatto scelte diverse”. Un Vedder particolarmente ispirato, unitamente alla scelta di avere l’outsider Josh Evans come nuovo produttore (Evans ha anche suonato le tastiere, mixato e co-ingegnerizzato l’album), ha ripristinato gli equilibri con il pubblico deluso dei precendenti “Backspacer” del 2009 e “Lightning Bolt” del 2013.
Gigaton è frutto di un lungo viaggio attraverso tempi emotivamente oscuri e confusi, il singolo principale “Dance of the Clairvoyants” è una rielaborazione ben riuscita del suono distintivo della band. La sezione ritmica elastica ispirata al funk e il riff di synth, sono un buon abbinamento per la voce di Vedder, che suona arrabbiata ed esausta. In netto contrasto con il massimalismo di quella traccia “Comes Then Goes”, una ballata delicata, dalle influenze country, che mette in mostra la gamma vocale spesso sottovalutata del cantante. L’emozione si intensifica in “Buckle Up” dove Gossard scrive musica e testo, un pezzo che affronta il tema della morte a colpi di chitarra che genera un groviglio di accordi simili a quelli di una ninna nanna.
Ancora a metà troviamo “Quick Escape”, una sorta di sollievo in un crescendo di archi per un tentativo di ritorno alle origini e, mentre la linea di basso – che vagamente ricorda “Army of Me” di Björk – si costituisce come spina dorsale del pezzo, le chitarre squarciano il suono senza mai stabilizzarlo troppo. Lo stupendo “Alright” coinvolge con il vertiginoso e sinistro giro di note di pianoforte. Per fortuna, orpelli e sperimentazioni non lasciano mai in secondo piano le melodie.
“Never Destination”, con le sue vibrazioni rock classiche, si dilata lentamente, ma non convince del tutto per via della sua ridondanza, così come non entusiasma “Take The Long Way” scritto dal batterista Matt Cameron, presenta per la prima volta un coro di voci femminili. Dal rock corposo e ritmato passiamo a “Retrograde”, una ballata new wave sul tema del cambiamento climatico del chitarrista Mike McCready, che spinge alla riflessione e lo fa utilizzando tutto il fascino e la solennità del suono acustico.
La band è sempre stata guidata più dall’istinto che da qualsiasi orientamento al mercato discografico, scelta che si è dimostrata vincente su “Superblood Wolfmoon”, secondo singolo ad anticipare l’album, graffiante garage-rock dalla prepotente batteria e chitarre dall’energia nervosa, tanto quanto la voce di Vedder che grida nel tentativo di affrontare una perdita: “And love not with standing, We are each of us fucked!”.
Chi conosce i Pearl Jam sa, che è una loro caratteristica quella di causare danni permanenti ai condotti lacrimali con le loro tracce di chiusura e “River Cross”, non è certo da meno. Sostenuta dall’organo a pompa dal suono malinconico e dalle percussioni che affondano, questo brano rompe gli schemi usando come base una linea di sintetizzatori pastorali, unita al coro e alla voce contemplativa di Vedder, per una conclusione epica.
Lontani dal passato e liberati dal peso delle aspettative degli ultimi anni, sono riusciti a correre alcuni rischi che si rivelano più chiari e distinti ad ogni ascolto. Gigaton ha il suono convincente dei Pearl Jam che fanno del loro meglio per non assomigliare ai Pearl Jam, d’altronde lo dicono a chiare lettere: “When the past is the present and the future’s no more, when every tomorrow is the same as before”.

75/100

(Simona D’Angelo)