WILCO, “Being There” (Reprise Records, 1996)

Secondo un vecchio adagio (barzelletta?), i Wilco sarebbero i Radiohead americani. Se volessimo prenderlo sul serio, possiamo riconoscere che una delle similitudini più manifeste tra la band di Chicago e quella di Oxford è nei rispettivi album d’esordio: entrambi non memorabili, entrambi poco rappresentativi delle potenzialità creative che c’erano dietro. E se “A.M.” è il “Pablo Honey” dei Wilco, “Being There” è il loro “The Bends”: l’esplosione inattesa di una profondità di composizione e scrittura che pochi avevano intuito alla prima prova discografica.

“Being There”, doppio album venduto al prezzo di un singolo, è la scommessa dei Wilco per compiere il salto di qualità, per non essere una band tra le tante, a dispetto della fatica di emergere: fin dall’inizio Jeff Tweedy era stato sotto pressione per via del confronto con l’ex socio Jay Farrar e i suoi Son Volt, in lizza per accreditarsi come veri eredi degli Uncle Tupelo. Tweedy era incerto del proprio percorso, mentre la sua vita da rock’n’roll kid stava per essere sconvolta dall’arrivo di un figlio e le responsabilità conseguenti.

Si parte proprio da lì: “Being There” ruota attorno alla fatica e il logorio di essere in una rock band mentre la vita si fa adulta e il successo si fa attendere. Le tensioni e le tematiche dell’album si trovano già tutte in apertura, in un brano-simbolo che da solo varrebbe tutto il disco: “Misunderstood” è il nuovo inizio che (ri)definisce l’identità dei Wilco, in cui Tweedy riesce a far fluire una scrittura autentica e personale come mai prima d’allora. Si tratta soprattutto di lasciarsi andare alle cattive sensazioni, alle contraddizioni e le cose che sembrano più difficili da scrivere e cantare: con amara ironia Jeff tratteggia l’orgoglio ottuso di un perdente che resta invischiato nei meandri della provincia americana, pur sentendosi chiamato alle vette del successo. Il suono che lo accompagna stride tra gli accordi folk e un magma di feedback dissonanti che ribolle al di sotto, per sfociare in improvvise eruzioni.

Lungo il doppio album i Wilco mettono in moto il pendolo che scandirà in buona parte la loro carriera: da un lato la voglia di classicità rock, dall’altro una persistente vibrazione esistenzialista, un aggirarsi masochistico negli angoli non illuminati del vivere, quelli di cui ci si vergogna, di cui si ha paura e da cui si vorrebbe fuggire.

Nelle ballate e i brani più sommessi, i Wilco guardano alla vena più malinconica ed esistenzialista del roots rock americano: si sentono echi del Neil Young di metà anni ’70, sposati alla sensibilità dell’alt-country di cui gli Uncle Tupelo erano stati antesignani. L’impronta è però decisamente personale: la voce di Jeff Tweedy è ora svagata, assonnata, ora sguaiata, da ubriaco molesto; veicola insicurezza e insolenza al tempo stesso. “Red Eyed and Blue”, “Someone Else’s Song” sono ballad acustiche con arrangiamenti minimali che hanno il respiro profondo e assieme rarefatto di confessioni casuali, ma dolorosamente fondamentali.

Altrove l’acustico si intreccia con arrangiamenti più robusti, con risultati molto convincenti: “What’s World Got In Store”, “Kingpin”, “Do You Miss Me”, l’intensa “Sunken Treasure” con la sua dinamica quiete/tempesta/quiete. In altri passaggi il suono sembra un po’ lezioso: il banjo e il violino di Max Johnston suonano ormai troppo di maniera, e se ne andranno di lì a poco. E’ invece il nuovo arrivato Jay Bennet a fornire il contributo più corposo al nuovo suono, in grado com’è di spaziare tra chitarre acide e ariosi tappeti di organo Hammond.

Sul versante più elettrico, la scrittura finalmente liberata di Tweedy si presta a cavalcate pop-rock perfino più trascinanti di quelle di “A.M.”: la sequenza “Monday” / “Outtasite” assesta un uno-due da urlo, un’esplosione di energia power pop in cui trova piena espressione la vena più ironica dei Wilco: la prima racconta di furgoni scassati, concerti senza pubblico e lezioni bigiate, la seconda trasforma la frustrazione di non sentirsi accettati (dal pubblico, dall’amata) in un esilarante inno loser, presente anche sul secondo disco in versione acustica (“Outtamind”). “I Got You” risplende nei suoi cori contagiosi, mentre “Hotel Arizona” è un’altra grande canzone del nuovo corso Wilco, che unisce una scapigliatura lo-fi a un crescendo strumentale drammatico.

Nella chiusura sgangherata di “Dreamer in My Dreams” le domande sono ancora tutte aperte: l’arrivo del figlio, il non-arrivo del successo, non essere compresi, apprezzati, amati. A dispetto della propria insicurezza, ma anche grazie ad essa, Jeff Tweedy stavolta fa centro: da “Being There” in poi le sue incomprensioni e le paure saranno anche un po’ lo specchio delle nostre, in cui ci potremo riconoscere per sentirci un po’ meno soli e misunderstood.

83/100

(Stefano Folegati)