MASSIMO VOLUME, “Il Nuotatore” (42 Records, 2019)

Scrivere di un album dei Massimo Volume è difficilissimo. Anche questa volta lo è. Nel mio caso non si tratta di una questione nostalgica dovuta al confronto di quello che era con ciò che è: pur avendo frequentato i M.V. anche negli anni Novanta devo ammettere di essere legato maggiormente alla seconda fase del progetto, quella che è ripartita con nuova linfa con quel capolavoro imprescindibile che è “Cattive Abitudini” (2010). Del resto lo stile e la credibilità della band di Clementi – credo – è rimasta immutata, e molto coerente, in tutti questi anni. Non abbiamo davanti un gruppo che ha cambiato pelle, che si è lasciato indietro fans rimasti increduli di fronte a svolte improvvise e, lo sappiamo bene, ci sono altre esperienze italiane dei Novanta che invece hanno vissuto queste parabole. Siamo di fronte a dei giardinieri di un proprio linguaggio, seminatori imperterriti del medesimo, bellissimo campo.

Ne “Il Nuotatore” i Massimo Volume mantengono il loro registro inconfondibile, quella loro tensione sottotraccia, quella liricità mai doma. Sarà che i M.V. sono sempre ritornati senza fretta, quando davvero avevano qualcosa da dire, sarà che Emidio è effettivamente uno scrittore che con le parole ci sa fare, sarà che una band così coesa nel proprio significante fa fatica ad essere individuata, sono con tutta probabilità molte le motivazioni se i M.V. sono così amati e se – ancora – non ci hanno deluso.

Tra le tante, appunto, per questo disco vorrei sottolinearne una, a mio parere imprescindibile: il lavoro chitarristico stratosferico compiuto da Egle Sommacal. Sempre a fuoco, sempre definito. Non era semplice ripartire dall’essere chitarra unica dopo l’abbandono di Stefano Pilia (che sarà sostituito in tour, e ne siamo felici, da Sara Ardizzoni), ma Egle aveva ben chiaro cosa trasmettere. Ne “Il Nuotatore” (l’album) le chitarre fluttuano tra nervosismi e delicatezze, tratteggiano le melodie che trasportano nell’ascolto delle parole di Mimì. Lavorando per sottrazione, senza eccessi seppure con interventi incrociati, Egle ha realmente registrato delle parti di chitarra memorabili.

A fianco di questa perfezione chitarristica il drumming evoluto e che sorprende ogni volta di Vittoria rende le canzoni fluide e incessanti, mentre i testi di Emidio ci restituiscono quadri del suo mondo che, se ci immergiamo senza difese, sembra che parlino di noi anche quando citano letteratura. Ci ritroviamo infatti inesorabilmente nel nostro essere borghesi come il protagonista del racconto di John Cheever, ci specchiamo nelle nostre paure quando scostiamo il velo che copre le nostre ipocrisie, possiamo capire che i nostri vizi possono essere la nostra rovina, e sì, annuiamo quando Mimì ci dice che senza il male il mondo non sarebbe lo stesso, sarebbe più povero, più “fatuo e carino”. Assolviamo noi stessi perché incolperemo qualcuno, perché la fortuna non ci ha inseguito e potremo maledirla. E tra tutti questi affreschi declinati spesso all’impersonale, al letterario, ce n’è anche uno personalissimo, sulla madre di Mimì, che non può che colpire se si fa un parallelo con la delicatezza con cui invece Emidio invoca il padre in “Mi piacerebbe ogni tanto averti qui” (“docile”, “leggero come una rondine”). La madre è invece quella che si preoccupa delle mutande pulite “se un auto a nove anni mi avesse travolto in via Milano mentre tornavo a casa con la cartella in mano”, e in questo contrasto si coglie una differenza forse universale, quella delle mamme che hanno sempre tenuto in piedi i legami e le famiglie, e le apparenze, ma a che costo, così prese dalla quotidianità tanto da perdersi il dialogo e l’empatia con i figli. Ma sono solo interpretazioni che possono sfiorare e che non devono assurgere a valutazioni autentiche, si tratta unicamente di lasciarsi trasportare nei pensieri dai racconti lucidi dell’album.

Che l’estate è passata, possiamo solo sentire più freddo.

80/100

(Paolo Bardelli)