Cover Giugno 2017: Kevin Morby

La cover di questo mese è dedicata a Kevin Morby: una delle figure più creative della scena rock underground americana degli ultimi anni, con la mente e le mani in tante band e progetti. Un vero e proprio vagabondo musicale in continuo movimento: tra Kansas City, Brooklyn e Los Angeles negli ultimi anni ha suonato, scritto, registrato canzoni insieme ad altri musicisti o più semplicemente da solo. Dapprima elemento portante – bassista – nel suono folk psichedelico dei newyorkesi Woods e poi artista alla ricerca di una propria identità sonora e autoriale : partendo dall’esperienza a suon di garage pop dei Babies ha quindi cominciato a pubblicare dischi a suo nome, tutti figli della terra americana, dando vita a un mondo musicale contemporaneo con radici nel folk, nel country made in USA e una narrazione sonora che gira (sempre o quasi) attorno a posti, luoghi del paesaggio americano, che diventa protagonista, quasi concreto, di molte canzoni, fino ad essere quasi umanizzato, citando un verso della title track dell’esordio del musicista americano, “Harlem River, tell me, is it true?”.
In “City Music”, nuovo disco in uscita, Morby continua sulla stessa lunghezza d’onda: stesso modo di raccontare e fare musica. L’album, scritto in contemporanea con il disco precedente, ne è sostanzialmente la controparte opposta da un punto di vista concettuale e sonoro. Si passa dalla vita in quel di Los Angeles, descritta in “Singing Saw”, alla solitudine delle persone, che pur vivendo in una grande città, si rinchiudono in se stessi lontano dalla socialità e frenesia urbana. Storie metropolitane di isolamento, quindi. Morby ritorna pertanto alle origini, al suono di New York, quello dei Babies e quello, soprattutto, dei “suoi eroi” come Lou Reed, Ramones e Television. Un universo di note rock’n’roll in antitesi con quello più rurale delle produzioni più recenti. Solo in apparenza, però : il suono di “City Music” è chiaramente e volutamente quello da live band ma alla fine, forse anche non in maniera inconscia, nella struttura canzone degli undici brani il musicista americano dà voce a tutte le sue anime musicali – acustica e chitarristica, folk e rock – finendo per fonderle insieme. Un passo quindi significativo verso la creazione di un senso estetico e poetico personale.