DIIV, “Is The Is Are” (Captured Tracks, 2016)

diiv-is-the-is-are-2016L’hype e l’immagine spesso aiutano a dare il giusto valore a determinate uscite. In altri casi sono fuorvianti, come nel caso dei DIIV. Zachary Cole Smith e soci li seguiamo dagli inizi, praticamente da quando DIVE (primo nome della formazione) era considerato una sorta di side project dei Beach Fossils. Negli ultimi cinque anni, la popolarità dei DIIV ha quasi travolto quella della band madre, ai tempi ancora uno dei nomi chiave della scena di Brooklyn legata alla Captured Tracks. Anche per meriti extra-musicali: l’immagine del biondo frontman dal fascino efebico e maledetto, i problemi con la droga e la legge, la relazione con una delle giovani icone fashion d’America come Sky Ferreira. Ma sarebbe ingiusto accostare i DIIV ai tanti fenomeni da baraccone senza arte né parte che hanno sovraccaricato gli anni Duemila di revival privo di sostanza.

“Oshin”, album di debutto, viaggiava sospeso tra echi jangle, dream-pop e shoegaze, wave, post-punk e un’innata propensione a digressioni kraut. Tante canzoni dall’impatto travolgente e pochissimi compromessi a livello promozionale. I già citati problemi di droga non aiutano i tempi di gestazione che si dilatano come i loro brani più riusciti. La luce in fondo tunnel si intravede a metà 2015 quando finalmente è annunciato “Is The Is Are”, atteso, rischiosissimo seguito di “Oshin”. Il rischio è dettato non solo dai continui e misteriosi ritardi che hanno accresciuto attese e timori (anche per delle performance live al di sotto di una media sempre alta), ma innanzitutto dalla durata assolutamente fuori dai trend: un’ora di musica per diciassette brani. Il disco ha bisogno dei suoi tempi per essere metabolizzato. Dal primo ascolto si capisce subito che, in fin dei conti, i DIIV hanno già costruito un’identità nei suoni e nelle linee vocali che li rende molto riconoscibili. A tratti incredibili. Tra i nuovi punti di riferimento emergono senz’altro i Sonic Youth, la cui influenza sembra molto più evidente che in passato. In “Bent (Roi’s Song)” e “Dopamine” lo si è percepito subito. O in un’altra egregia prova di maturità come “Dust” dove vanno a ripescare dai Sonic Youth più oscuri di metà anni Ottanta, come anche in “Yr Not Far”.

Non a caso “Bad Moon Rising” è stato menzionato spesso tra le influenze principali di questo disco. Il tributo alla gioventù sonica diventa quasi un’ostentazione in “Blue Boredom” sussurrata Sky Ferreira alla maniera di Kim Gordon. Le atmosfere sono le stesse di “Oshin”, ammalianti e decadenti, con una tensione melodica sempre efficace. Anche nei tempi in levare più accattivanti che avevano reso il disco d’esordio un prodotto per tutti, dove c’era “Doused” oggi c’è la titletrack e “Under The Sun”, tra chitarre The Cure, andature post-punk e quella peculiare coralità eterea su cui riescono a marciare con abilità. In quest’attitudine ricordano senz’altro i Deerhunter pur guardando altrove, come, ad esempio ai dischi della prima metà degli anni Ottanta di R.E.M., Cocteau Twins o Echo & the Bunnymen. I My Bloody Valentine, di cui sono fan dichiarati, restano l’inevitabile spirito guida dal punto di vista musicale, mentre nei testi e nelle ispirazioni terze, ci sarebbero Nirvana, Elliott Smith e Cat Power, anche se restano delle tracce solo di quest’ultima, in una citazione presente in “Bent (Roi’s Song)”. L’ascolto procede senza intoppi, in intrecci ipnotici e liquidi con quel mood kraut che ha sempre fatto da collante tra le chitarre e la base ritmica dei DIIV.
Non era il disco di rottura che avevano lasciato prefigurare, ma “Is The Is Are” recupera con gran gusto tre decenni di post-punk e filiazioni con personalità, un’immutata vena compositiva e sonorità ancora più definite e per certi aspetti ormai inconfondibili.

Non badate all’immagine e a come si vestono. Ci sono cose molto più importanti.

80/100

(Piero Merola)