Pensieri sparsi su David Bowie

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Ci siamo presi poco più di una settimana di tempo per rendere omaggio e ringraziare David Bowie nel modo più sincero e libero che potevamo. Qui sotto trovate numerosi contributi – dei “pensieri sparsi” appunto – che provano a raccontare quello che Bowie era per chi scrive su Kalporz. Buona lettura.

Era uscito “Black Tie White Noise” e io, giovincello, vedevo passare il video alla TV e ne ero attratto e disturbato. Sapevo chi fosse il tipo che cantava, ma non è che mi prendesse molto. Salto in avanti: anni dopo, scopro “Life On Mars” e la ascolto per giorni interi, pensando che si riferisse davvero a qualche menata spaziale. Qualche mese dopo avevo ascoltato tutti i dischi di questo David Jones che per “sfondare” aveva dovuto aspettare il quarto lavoro, cosa che oggi non accadrebbe, troppo tempo, troppi investimenti che non ci sono. Ecco, il punto è questo: David Jones ha inventato David Bowie. Ha continuato a reinventarlo, ad interpretare personaggi che sono parte dell’immaginario collettivo, a cambiare stile, generi, raggiungendo traguardi pazzeschi per cadere in burroni creativi troppo profondi per chiunque altro. Nel frattempo mutava anche aspetto, si drogava, trombava con chiunque ed entrava nell’eternità, nel novero di quegli artisti che si pensa immortali e che, in un certo senso, lo sono sul serio. La critica comune è che David fosse fin troppo furbo, capace di “rubare” quello che andava e farne qualcosa di commerciabile. Tutto vero, ma quel “rubare” è sempre stato molto di più. La capaità di cogliere lo zeitgeist musicale e sociale dei tempi in cui si vive e si è artisti, confezionarli in prodotti quasi mai buttati lì solo per fare cassa, cercare di andare avanti a tutti i costi continuando a scrivere pezzi che dondolavano gioiosi tra pop e avanguardia e nel frattempo divenire un’icona pop di quelle che non vedremo mai più. Più immortali di così si muore e si rinasce ogni volta che qualcuno scoprirà il cammino di quel signor Jones (do you?) da Brixton.
(Giampaolo Cristofaro)


(Tom era un bel tossico anche lui, ndc)

Non ricordo il giorno esatto in cui ho ascoltato per la prima volta Bowie e nemmeno la canzone, ricordo solo che stavo leggendo un libro sulla storia della musica inglese. C’era una sua foto, una di quelle del periodo di Ziggy Stardust. Rimasi subito affascinata da quella creatura androgina ma comunque mascolina e incredibilmente sensuale, esotica, magnetica. Non vi annoierò sul quanto la sua musica sia stata importante e sul quanto mi abbia accompagnata in ogni momento della mia vita. Per me David è stato anche altro, una guida in un mondo che conoscevo a malapena. Mi ha insegnato che l’essere diversi è bello, che il cambiamento, la costante trasformazione di noi stessi è fondamentale. Mi ha fatta innamorare dell’androginia in ogni sua forma.
‘And the day will end for some, as the night begins for one’, la tua notte è iniziata ora White Duke, la stella più luminosa del firmamento. Voglio immaginarti così, lassù, etereo ed intoccabile, come sei sempre stato e ogni volta che guarderò le stelle, di notte, nella mia testa partirà la colonna sonora perfetta, la tua discografia.
(Chiara Viola Donati)

Da una cabrio parcheggiata in divieto di sosta rubai furtivamente una compilation originale di David Bowie in cassetta. Non ho mai amato i prepotenti e quello fu il mio risarcimento per la mia congenita onestà. Questo, in poche parole, fu il mio primo approccio con il Duca Bianco. Quella cassetta, rubata per rimettere ordine alla furbizia del mondo, scombussolò, involontariamente e con il passare degli anni, il mio modo di ascoltare musica. Ai tempi (sarà stato nei primi anni 90) Bowie lo conoscevo solo di nome. Troppo preso da musica che rappresentasse la mia generazione. Inutile dire che quella cassetta la consumai. Poi più in là mi rubarono la macchina e io iniziai ad approfondire l’argomento. Però il Bowie della mia generazione era troppo anziano e troppo preso a non invecchiare, quindi le uscite che flirtavano con il noir e la jungle non stuzzicavano la mia fantasia. La mia ricerca andò a ritroso e mi imbattei, piano piano, con la trilogia Berlinese, con alieni caduti sulla terra e Pierrot d’avanguardia, i make-up pesanti alleggeriti da quel Glam sbarazzino e poetico ma soprattutto con un soul Bianco gonfio di fiati ed eccessi. Ogni disco una scoperta. Ogni volta, una certezza. Trasformarsi rimanendo attaccati alla propria esorbitante ed eccentrica personalità. Questo per me è stato Bowie. Eroe per un giorno composto da anni luce.
(Nicola Guerra)

Il primo ricordo che mi lega a David Bowie è datato 20 Febbraio 1997, quando ancora frequentavo la televisione e vi cercavo stimoli. Chi di noi giurerebbe di non aver mai guardato Sanremo, almeno per gli ospiti stranieri? L’anno prima i Cranberries ci avevano suonato “Salvation”, brano tellurico nella loro discografia fino a quel momento. Dunque la mia attesa da giovanissimo consumatore di rock per l’esibizione del Duca Bianco era ai massimi storici, e l’ascolto di “Little Wonder” è stato di per sè una sorta di rivoluzione, echi drum’n’bass fusi all’elettronica e Marylin Manson a braccetto del cyber-punk. Una briciola insignificante di ciò che ha rappresentato l’artista londinese per la storia della musica. Mike Bongiorno disse a fine canzone, mentre passavano i titoli in apertura di serata, “Chi ha acceso la Tv solo ora si è perso David Bowie“. Oggi riscattiamo questa ben più grave perdita con l’infinito amore per un genio.
(Matteo Maioli)

A venti anni credi di avere il mondo in mano, ma solo perché più in alto c’è qualcuno che regge il peso e ti permette di guardare al migliore dei futuri possibili. E ogni tanto qualcuno se ne va, e il filo si spezza, ma tieni botta, perché continui a crescere e la vita va avanti. Ma qualche giorno fa quella sfera è diventata molto più pesante. David Bowie era molto più di un cantante o di un attore, era più dei suoi personaggi e delle sue canzoni; era un’artista totale e un’icona presente nella vita di ognuno, volenti o meno. E con la sua morte, così diabolicamente programmata a lungo e in gran silenzio nei dettagli, si è consegnato alla storia dell’arte.
Touchè, mr. James, stavolta ci ha giocati davvero. O forse sono solo le lacrime che non ci fanno capire bene se questa sia la realtà o il palcoscenico.
(Matteo Mannocci)

Avevo sei anni e Let’s Dance era ovunque. Nei bar, in radio, nei programmi tv dedicati ai videoclip. Chi diavolo fosse a cantare lo ignoravo, così come ignoravo che quel tizio inglese avrebbe segnato tutto il corso della mia vita musicale, e persino parte di quella cinematografica. Tra Ziggy Stardust e Nikola Tesla passa appena un trentennio, e sembrano ere geologiche. C’è un’intimità con Bowie (a proposito, dedica ai so-tutto-io da social: all’epoca TUTTI pronunciavamo male il nome, e nessuno si indignava) che esiste con pochi artisti. C’era anche con Lou Reed, che del Duca Bianco era immagine riflessa, opposto e gemello, doppione e antitesi. C’era con un mondo, che oramai quasi non c’è più. Rock’n’Roll Suicide, canta. Eppure la traccia riparte sempre. Una volta in più allora, la più triste.
(Raffaele Meale)

Non è che si pensasse veramente che Bowie potesse essere immortale, ma di sicuro la notizia della sua morte è stata spiazzante. A maggior ragione dopo la ripresa dell’attività discografica degli ultimi anni e il recentissimo “Blackstar”, pubblicato due giorni prima della sua morte. Senza stare a ragionare su quanto l’ultimo lavoro abbia rappresentato il suo requiem musicale (volontario o no), ora che la storia del Duca Bianco ha avuto una sua fine si può ragionare a freddo su come la sua carriera sia stata sempre segnata dalla voglia di guardare avanti, rappresentando l’arte in tutte in tutti i suoi aspetti. Bowie non è stato solo un musicista e cantante, ma prima di tutto artista.
(Francesco Melis)

Mai come questa volta, credo, ho avvertito una sensazione così strana. Non sento la mancanza di David Bowie. La sensazione è quella di averlo ancora qui tra noi, sempre defilato e riservato nella sua ultima patria, Manhattan, come se in fondo non ci avesse mai lasciato. La sua figura ha sempre conservato quella dimensione così distaccata, ma al tempo stesso perfettamente inserita nella contemporaneità. Sarà stato anche merito del suo ultimo capolavoro, “Blackstar”, che è un disco complesso, intenso per atmosfere e sonorità, a suo modo eccentrico e ricercato, ma sempre così inequivocabilmente Bowie, attuale e senza tempo. “Blackstar” ci ha accompagnato in questo inizio di 2016 come hanno fatto in passato tantissimi album di Bowie. Non voglio ricordarlo con noiose carrellate di capolavori e di successi né spiegarvi cosa l’ha reso uno dei giganti della musica contemporanea. Mi piace considerarlo ancora vivo nel nostro immaginario per ciò che ci ha regalato nelle sue ultime settimane, “Blackstar”, il suo venticinquesimo e ultimo lavoro in studio: il fascino oscuro di una “Blackstar”, una ballad amara come “Dollar Days”, le ritmiche inquiete di “Sue (Or In a Season of Crime)”, la sua voce tra i sax e gli arrangiamenti noir, il sofisticato e consapevole testamento di una “Lazarus”.
“Oh, I’ll be free / Just like that bluebird / Oh, I’ll be free / Ain’t that just like me?”. David Bowie è ancora qui con noi.
(Piero Merola)

C’è un uomo delle stelle che ci aspetta da qualche parte nel cielo, questo è certo.
Non si potrebbe spiegare altrimenti la luce che la musica di David Bowie è stata in grado di proiettare nelle vite dei suoi milioni di fan. Un amore infinito, qualcosa di diverso dalla semplice passione, un sentimento in grado di influenzare un’esistenza, perfino di cambiarla.
Domenica pomeriggio a Milano erano in tanti a piangere. Come erano in tanti a conoscere a memoria le canzoni del grande David. Una testimonianza d’amore di cui molti sentivano la necessità. In questo caso ha poco senso discutere sul perché e il percome della celebrazione post mortem di un artista. Il punto è che Bowie non era UN artista, David era, anzi è, una leggenda. E come tale merita tutto l’inchiostro e tutte le parole che sono state usate in suo onore.
Per quel che mi riguarda, non posso fare a meno di ricordare lo stupore nell’ascoltare Ziggy Stardust per la prima volta, un Natale di tanti anni fa. Lo stesso stupore che provo ancora oggi ogni volta che schiaccio play.
(Stefano Solaro)

Sembrava quasi che ci vedesse meglio Bowie attraverso quell’occhio sinistro con la macro-pupilla, regalo permanente di un bulletto della peiferia a sud di Londra. Un esperienziale scontro a pugni che deve aver ringraziato moltissimo a posteriori, nel corso degli anni, per avergli donato uno sguardo diverso da tutti noi. Perchè sì lui era diverso dagli esseri umani: di una leggerezza aliena, faceva grandi cose per ricordarcelo e noi ancora oggi facciamo fatica ad immaginarlo uno come noi – tangibile, reale. Con quei suoi occhi era capace di vedere quello che non c’era: la vita su Marte, un uomo nello spazio, cani antropomorfi, gli scontri-incontri di culture a Berlino, e molte altre cose tra cui persino e addirittura la morte, così glorificata e catartizzata in nell’ ultimo “Blackstar”, che è diventato il suo requiem (consapevolmente o no, poco conta). Un’opera che è l’ultima conferma di quello che per me Bowie è sempre stato: qualcuno che vedeva meglio, di più, più avanti, che nella vastità del suo sguardo ci faceva sentire piccoli, ma umani, e a noi andava bene così, ci piaceva. Senza il suo sguardo siamo di sicuro più miopi.
(Enrico Stradi)

La prima volta che ti ho conosciuto ero ragazzina, una problematica ragazzina a cui piacevano film tristi sulla gioventù abbandonata. La tua voce di sottofondo ad una corsa tra i negozi di un centro commerciale berlinese, “we can be heroes, just for one day”. Heroes è una canzone che mi ha aiutato, che ho ascoltato in ripetizione ballando al buio con le cuffie alle orecchie. Il volume altissimo e il sogno di non essere umana, ma di diventare quel loop tanto speciale che ha reso così unica questa canzone. Ora che scrivo ho ancora voglia di ballare senza pensare, senza pensarci. Spengo le luci e ballo. Ti voglio celebrare così, nostro incredibile David Bowie.
(Chiara Ugosetti)