LEON BRIDGES, “Coming Home” (Columbia Records, 2015)

static1.squarespaceLe ore del giorno sono già parecchio adulte, e infatti lungo la strada che ho di fronte al mio volante non c’è quasi nessuno. Ad aspettarmi alla fine del viaggio c’è un groviglio di capelli rossi spettinati che dorme da qualche ora. Non vedo l’ora di mischiarli ai miei, ma mancano trentanove lunghi chilometri e quindi non mi resta che godermi il momento: i finestrini abbassati funzionano meglio dell’aria condizionata, sono più economici, e fanno entrare in macchina quell’odore di erba e di fossi umidi che se nasci qui non puoi dire che ti faccia schifo, la verità è che un po’ ti piace.

Ho appena fatto partire il disco di Leon Bridges, che stavo aspettando da parecchi mesi, da quando uscì quel primo singolo “Coming Home” che se avessi avuto il singolo su cidì il cidì ormai sarebbe già bell’è che consumato. Sentire proprio quella canzone all’inizio mi mette a mio agio, la conosco bene. Forse qualche animaletto di campagna uscito dalla sua tana per fare due passi mi sente addirittura cantare. Vale lo stesso per “Better Man” che arriva subito dopo. Sono i due singoli che sono usciti da un po’ e che all’improvviso hanno permesso a Leon Bridges di farsi notare e dire alle orecchie attente di tutto il mondo “ehi sono qui, sono io, non è Sam Cooke, sono proprio io”. Poi arriva “Brown Skin Girl”, che mi sculetta nelle orecchie. Fiati rotondi e cicciotti ballonzolano di qua e di là e sì, succede quella cosa che funziona solo se non pensi a cosa stai facendo: ballo, seduto sul sedile. Canticchio sui coretti di “uuuh uuuuh” di vecchio stampo soul anni ’50, seguo il tempo, schiocco le dita proprio come un jazzista o bluesman ad una festa in riva al Mississippi. In pieno trip vintage, parte “Smooth Sailin’” che forse è un pochino troppo radiofonica, mi piace ma non così tanto, e mi viene quasi da dubitare che il resto dei pezzi non siano poi come fino ad ora me li sono immaginati. Lo ammetto, l’ho skippata a tre quarti, un po’ preoccupato, un po’ ansioso di sentire cosa veniva dopo.

Ed è proprio“Shine” che mette subito a posto i miei dubbi a riguardo: un pezzo splendido, che tira fuori tutta la romanticheria della voce nera di Leon Bridges, con il suo incedere pacato finchè non arrivano quelle aperture maestose e dorate, che trasformano il riflesso dei lampioni sui moscerini spiaccicati sul finestrino in centinaia di stelle cadenti. “Lisa Sawyer” è il pezzo gemello, e quindi bellissimo, che ha solo una colpa, quella di arrivare secondo.

“Flowers” agita tutto con uno swing allegro e candenzato, e mentre muovo il ciuffo mi chiedo se quello che vedo intorno a me nel bio sia il nonnulla emiliano o il nonnulla yankee. Non trovo risposta. “Pull Away” interrompe le elucubrazioni geografiche e riporta il disco nell’atmosfera da smancerie smokeyrobinsoniane che ha funzionato bene fino a qui. Leon Bridges torna a far sentire la sua voce e ad interpretare il ruolo di soul-bluesman che meglio gli si addice, intervallato dai cristallini intermezzi delle coriste che danno ancora più luce alla canzone. “Twisting And Groovin’” fa sentire la chitarra elettrica, fino ad ora rimasta al suo posto a fare da ambiente: qui invece viene fuori, e per pochissimi attimi viene in mente un po’ l’intro di “Roadhouse Blues”. Si, addirittura.

E poi “River”, che parte scarna con solo la chitarra acustica ma poi man mano si rinvigorisce come un fiume del sudest americano, placido e liscio.
È così che Leon Bridges ci saluta, con un inno gospel perfetto, commovente e romantico, spirituale e profondo, emozionante.

Tempo di riaprire gli occhi sono arrivato, sta ripartendo la prima, “Coming Home” proprio ora che sono arrivato e i trentanove chilometri di strada che avevo davanti sono finiti tutti. La interpreto come una non meravigliosa coincidenza. Perfetta così. 
Prima di spegnere la canticchio un altro po’, come a rendere grazie a Leon Bridges per questo disco, e per come questo disco provi a far ricordare a tutti che nella musica, come poi in tutto il resto, servono le cose semplici: canzoni da cantare, odore dei fossi umidi d’estate, grovigli di capelli rossi addormentati che ti aspettano a casa.

82/100

Enrico Stradi