Cannes chiama Kalporz: 19 maggio 2015

Anche all’interno di un festival cinematografico esistono, di quando in quando, le giornate perfette; ventiquattro ore in cui ogni incontro con la Settima Arte si muove nella direzione giusta. Sono giornate rare, rarissime, eppure esistono. Non mi credete? Allora questo scetticismo può essere spiegato in due modi:

1) Non eravate presenti a Cannes il 18 maggio del 2015.
2) Eravate presenti a Cannes il 18 maggio del 2015, ma avete optato per le scelte sbagliate.

Se per esempio avete deciso di recarvi alle 8.30 al Grand Théâtre Lumière, dove era in programmazione La loi du marché di Stephane Brizé (qualcuno potrebbe ricordarlo per i precedenti Je ne suis pas là pour être aimé e Entre adults), invece di andare mezz’ora dopo, alle 9.00, al Marriott per godere del secondo capitolo della trilogia di Miguel Gomes As Mil e uma Noites, siete stati senz’ombra di dubbio causa del vostro mal. Dopo la prima parte, intitolata O inquieto, è ora la volta di O desolado: i racconti della moderna Bagdad, vale a dire il Portogallo nel pieno della crisi economica, si susseguono senza sosta, confermando quando di eccellente aveva proposto il primo volume e mirando se possibile ancora più in alto. Il secondo volume dell’ambizioso progetto di Gomes è un profluvio di idee geniali, tra cani che incontrano il proprio fantasma, banditi che si nascondono nelle montagne dalla polizia e un tribunale popolare che non è proprio possibile descrivere a parole. Cinema che combatte la crisi a colpi di intuizioni imprevedibili e stordenti, quello di Miguel Gomes è un esempio che sarebbe opportuno seguire: e forse è anche l’unico modo per raccontare un’Europa disgregata e alla deriva, evitando le secche fin troppo standardizzate del realismo tout-court e riscoprendo il gusto dell’invenzione. Mirabile.

Dopo questa scorpacciata di cinema purissimo ho abbandonato la contemporaneità per rifugiarmi nella Salle Buñuel, dove sono in programmazione i film di Cannes Classics, la sezione dedicata ai restauri (oramai tutti in digitale, ahinoi) dei gioielli del passato. Lì ho rivisto per la prima volta sul grande schermo Storia dell’ultimo crisantemo, capolavoro del 1939 di Kenji Mizoguchi. La storia di un attore del teatro kabuki che nel Giappone dei primi anni dell’era Meiji (la restaurazione dell’impero dopo gli svariati secoli dell’epoca Tokugawa) diventa, nelle mani sapienti di uno dei più grandi registi della storia del cinema, l’occasione per l’ennesimo scandaglio umano e per portare alle estreme conseguenze il discorso teorico sulla messa in scena attraverso i piani sequenza. Un’opera di fronte alla quale non si può fare a meno di sentirsi piccoli piccoli, quasi microscopici. Ad avercene…

Ci si sente delle particelle di secondaria importanza anche di fronte allo strapotere visivo (e visionario) di Apichatpong Weerasethakul, che ha presentato in Un certain regard Cemetery of Splendour, il suo primo lungometraggio dai tempi de Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, che qui a Cannes sbancò vincendo la Palma d’Oro ne 2010. In mezzo, nel 2012, c’era stata l’occasione di vedere il suo bel mediometraggio Mekong Hotel. Cemetery of Splendour è, forse, l’opera somma del regista thailandese: al suo interno è possibile rintracciare tutti i punti cardine attorno ai quali ruota il cinema di Weerasethakul, dal rapporto con la propria terra all’impossibilità da parte dell’umano di trovare una propria compiutezza nel reale, senza esulare mai rifugiandosi nel sogno. Sogno/incubo senza soluzione di continuità, Cemetery of Splendour è un viaggio ipnotico nelle radici stesse del “sentirsi thai”, e regala due ore di pura deflagrante potenza immaginifica. Avrebbe meritato di concorrere ancora una volta per la vittoria finale, ma con ogni probabilità di tratta di un’opera troppo densa, magmatica, stratificata e problematizzata per convincere una direzione del festival che punta al contrario a riavvicinare la massa alla kermesse.

Massa che almeno ha potuto godere della nuova gemma prodotta dalla Pixar, Inside Out di Pete Docter, gioiello d’animazione in grado di mettere d’accordo tutti. Avrei potuto terminare la serata con Marguerite et Julien di Valérie Donzelli, ma avrebbe significato al 99% rovinare una giornata perfetta. Di quelle che non capitano quasi mai nel corso di una vita cinefila. Ho allora preferito una soupe de poisson e un’escalope à la niçoise, con vino rosso ad accompagnare. Sì, decisamente meglio così.

Raffaele Meale