Primavera Sound 2014, Barcelona, 29-31 maggio 2014

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Con 190mila presenze distribuite in 5 giorni, il Primavera Sound alla sua quattordicesima edizione è diventato definitivamente un festival di grandi dimensioni.
Lo dimostra la portata degli headliner e la superficie quasi raddoppiata rispetto alle scorse edizioni.Il poster disseminato in ogni angolo della città ha 10 nomi chiave (dai Queens Of The Stone Age a Caetano Veloso), dei quali soltanto due (Kendrick Lamar e Disclosure) possono essere considerati delle “nuove proposte” e comunque tutto fuorché indie-rock come portata del nome. I puristi hanno storto il naso alla chiamata di Arcade Fire, Nine Inch Nails e Queens Of The Stone Age. Gli integralisti hanno storto il naso per la scelta di Veloso, i nostalgici hanno storto il naso per l’hype creato attorno al ritorno dei Neutral Milk Hotel, annunciati addirittura durante la scorsa edizione, perché “negli anni Novanta non se li cagava nessuno ed è solo colpa di internet e di Pitchfork”. L’organizzazione ha pensato di aumentare l’area calpestabile creando una zona riservata ai due palchi principali, il Sony e l’Heineken, che accogliesse i nomi principali lasciando alla zona “storica” del festival il resto della roba. Sempre più festival cittadino. Lo spazio c’è e a tratti, nonostante i numeri, sembra un festival fin troppo vivibile. Con poche sovrapposizioni, alcune molto tragiche, la continua necessità di traversate da un palco all’altro, ma una distribuzione di pubblico molto più omogenea rispetto agli anni scorsi. Tutto un altro festival, potrebbe sembrare, ma i nomi emergenti della scena indipendente non mancano.
Anche per questo il Primavera continua comunque a richiamare un eterogeneo campionario di avidi e affezionati consumatori di musica indipendente, quella supercontemporanea dei best new music pitchforkiani e quella più nerd dei fenomeni underground ATP degli ultimi decenni e quella pop/elettronica “perché comunque siamo in un festival spagnolo” e ci si deve divertire dalle 7 di sera alle 7 del mattino. Per tutto il resto la fauna random di turisti britannici e hipster spagnoli di ultimissima generazione resta molto più civile della media. La scelta di creare un’app per personalizzarsi la line up con tanto di promemoria sul cellulare fa sì che quindici minuti prima di ogni concerto ci sia un movimento sincronizzato di migliaia di persone che estraggono lo smartphone dalla tasca. E si può ben immaginare la strana coreografia di massa con più di 300 concerti da tenere sotto controllo per non perdersi nulla. Il Primavera “edizione deluxe” resta un festival dall’anima profondamente nerd e anche questa introduzione ne è prova lampante. E nonostante tutto, presenta un’eterogeneità unica di generi, sonorità e suggestioni di qualità che è impossibile ormai trovare in qualsiasi altro festival europeo.
Solita premessa di rito: non si può seguire tutto e il racconto, nelle sue scelte, è personale, soggettivo, contraddittorio e per forza di cose parziale. A partire dalla preview. La Sala Apolo si affolla per la succosa preview con The Brian Jonestown Massacre e i pirotecnico show full band di Har Mar Superstar. Ce n’è per tutti tra quelli che cercano riparo e quelli che comunque avrebbero preferito il revidivo collettivo psych alla parata di lustrini tra Stromae, Sky Ferreira e Holy Ghost!. C’erano anche i gettonatissimi nuovi fenomeni Temples, che avrebbero meritato di aprire alla band di Anton Newcombe molto più dell’inqualificabile duo di revival hard-rock Niña Coyote eta Chico Tornado che ha entusiasmato solo gli indigeni più affiatati con il genere.
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mercoledì 28 maggio – giovedì 29 maggio
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Le nuvole si tengono lontane per sollievo di quei presenti 2.0 che hanno molta più affinità coi social che con possibili pozzanghere. La vera e propria apertura nel buio inquietante dell’Auditori è affidata al sassofonista più noto dell’indie rock, Colin Stetson che regala un live al solito estremo e per palati sopraffini. Ci si immerge finalmente nei bagliori del suggestivo Parc urbano con un nuovo scivolone in atmosfere molto plumbee: i Föllakzoid rappresentano il Cile, sono il classico gruppo della Sacred Bones, con estetica tra l’ex metallari hipster e l’avanzo di galera latinos. Tutta un’altra storia rispetto ai Real Estate che, anno dopo anno, suonano in un palco più grande, senza aver cambiato il mood dell’esecuzione. Difficile pretendere da loro di pffrire dal vivo un’esecuzione vivace e da arena in un’arena. Sempre atmosferici, agrodolci e rassicuranti sono un preludio rilassato e assolato ideale per il mezzo pomeriggio. Inizia una serie di assaggini inevitabili, dagli inossidabili icone post-punk olandesi The Ex alla nuova proposta all’irresistibile quartetto da risposta irlandese agli Arctic Monkeys che risponde al nome stupido di Girlband.E poi ancora il side project dei Tame Impala nato prima dei Tame Impala, i POND, che dal vivo perdono leggerezza per offrire un live fragoroso e incessante come quello del più noto progetto dalla terra dei canguri. C’è anche spazio per la stralunata liturgia aliena marchiata Majical Cloudz e per i rurali Midlake, anche loro come i Real Estate certamente molto più adeguati alle vibrazioni da tramonto sul mare che il Primavera riesce a regalare nonostante la prevalenza di cemento. Primi chilometri percorsi vanno a braccetto con i litri di Heineken che accompagnano ineluttabilmente le traversate tra gli otto palchi cui si è aggiunta una boiler room a cupola che prova a regalare emozioni da clubbing dall’imbrunire in poi. Ci sono anche le discusse Warpaint che a dispetto di ogni timore offrono un live onesto, molto ben arrangiato, ma comunque senza infamia né lode. Sarebbe difficile dire la stessa cosa dei Neutral Milk Hotel. La band si presenta a schermi spenti e spenti sono gli obiettivi di smartphone e reflex. Nessuno si azzarda a sfidare la volontà di un barbutissimo e scorbutico Jeff Magnum (che pure accenna un paio di “gracias”). Non ha nemmeno bisogno di specificarlo a inizio concerto perché l’esercito dei Neutral Milk Hotel è figlio del web e le voci sul web girano. Un simpatico paradosso nel vedere una band che come estetica sembra assolutamente fuori dal tempo tra filastrocche folk sghembe e starnazzanti, fiati circensi, barbe hipster ante-litteram e seghe da boscaioli suonate senza bisogno di sintetizzatori. Uno show da altri tempi, difficile da spiegare in termini di paragone attuali una scaletta di classici (e con solo due album del genere all’attivo sarebbe impossibile il contrario). Bisogna solo essere americani nati tra gli ’80 e i ’90 forse, oppure solo legati in senso emotivo e autentico a questo curioso fenomeno di nicchia, diventato di culto un decennio dopo, per coglierne l’essenza. Dalla parte opposta del Parc si esibisce St. Vincent e il suo show perfetto, freddo, distaccato è tutto l’opposto. Non le si può dire niente, nemmeno su un palco di grandi dimensioni perde impatto. Così brava, magnetica e affascinante da creare un gigantesco muro di soggezione. Per dare un parere onesto sui Queens Of The Stone Age che si esibiscono poco dopo di fronte bisognerebbe non aver smesso di ascoltarli anni fa. Ci si aspettava sicuramente qualcosa di più epico. E invece si trasmigra dalla parte opposta per i Chvrches che, invece a dispetto, del solito scetticismo legato a questi fenomeni tra synth ed electro-pop prodotti come si deve. I tre scozzesi pezzi li hanno e dal vivo riescono anche a esprimersi nella piccola penisola hipster dei due palchi Vice e Pitchfork. La cancellazione last minute di John Wizards dà un po’ di respiro alla maratona. E l’idea di riservare il pit sotto palco agli addetti ai lavori, senza distinzione tra stakanovisti, possessori di biglietto vip e sbronzi accreditati, permette di vedere senza problemi il pirotecnico show degli Arcade Fire.

Sarebbe disonesto negare parte del fastidio legata all’ossessivo tam tam di notizie più o meno legate al loro ultimo album “Reflektor”. Per mesi non si è parlato d’altro sul web e il timore di una deriva da stadio era molto fondato. Gli Arcade Fire invece suonano come un gruppo da grandi platee. In questo festival, certamente, spesso ci suona anche il nome che in qualsiasi città d’Italia suonerebbe davanti a una 50ina di persone, ma l’ex orchestrina sfigata canadese è diventata grande, troppo grande senza plastificarsi troppo. I membri della band sono innumerevoli c’è anche il momento trash carnascialesco con “Tequila” e le solite maschere. Se ne potrebbe fare anche a meno, basterebbe il suono, ma son tutti contenti così. L’allegoria perfetta dell’ascesa verso folle sempre più “mainstream” del Primavera dove non a caso suonarono nel 2005 e poi ancora nel 2008, quando era un festival da 50mila ingressi in tre giorni o poco più. In fondo anche i Moderat hanno avuto la stessa parabola e l’ATP per loro è stipato. E lo stesso discorso vale per il bagno di folla dei Metronomy. Alle 3 passate sembra che siano veramente rimasti tutti per loro. Zucchero, confetti e suoni ruffiani. Difficile non muovere il culo. Si rinuncia ai Disclosure, già protagonisti lo scorso anno di una lunga coda finale in un palco dalle dimensioni più umane del nuovo Heineken. Per avere delle esperienze da club più intime e meno affollate c’è l’avvolgente set di Andy Stott sotto la cupola e le sassate finali di Julio Bashmore. La lunga giornata ha fatto vittime e per Jamie XX sembra che in pochi abbiano la forza di muoversi. Lui ci mette del suo nel risultare meno cattivo del collega che infiamma i sopravvissuti del palco Pitchfork. Ancora due giorni davanti, in fondo.

venerdì 30 maggio
La pioggia è nell’aria, ritardi vari nell’area pro per press e professionisti del settore sembra un pezzo d’Italia. Ci si conosce tutti, si brinda, ci si attarda, si prende parte nel tempo che resta a conferenze e meeting. Il Primavera è fatto di scelte. Così salta l’attesa Julia Holter ospite dell’Auditori e il pomeriggio bagnato inizia con il plastico Mas Ysa con la sua elettronica pop ben confezionata e forse troppo spinta nei bpm per l’orario. Fanno da contraltare le inquietanti Yamantaka che regalano un sabba indemoniato e spettrale. Da preludio all’atteso acquazzone che giunge sulle prime note di John Grant. Ama la pioggia, ammette, la pioggia ringrazia e smette di tartassare il Parc proprio quando John Grant si fa da parte. I Drive By Truckers lo menerebbero volentieri e un po’ anche noi: il Primavera non ha quel fango potenziale che lo renderebbe un festival da ricordare. Molto meglio il doppio arcobaleno che si staglia all’orizzonte e che ci preannuncia due giorni di tag “rainbows” su instagram. Si riparte a razzo coi Loop che danno una lezione di chitarre, psych-rock e concretezza di cui si avvertiva il bisogno. Anche perché tocca alle sorelle HAIM che per alcuni suona un po’ come sorelle HYPE. Le tre ragazze terribili invece tengono il palco da dio, lasciano in camerino le smancerie r’n’b che avevano reso accattivante il loro interessantissimo nuovo album e a tratti suonano arena rock. Adeguato al superpalco Heineken assegnato loro dall’organizzazione. Non solo rayban, hype e capello lungo fluente, insomma, per le tre Mickey Mouse club dell’indie-rock californiano.

Non sarebbe Primavera senza reunion di culto e gli Slowdive non tradiscono le attese con un live introspettivo, atmosferico, etereo come da loro marchio di fabbrica. E che trafigge al cuore con una scaletta micidiale. L’inizio con “Slowdive”, “Avalyn”, “Catch the Breeze”, “Crazy For You” e “Machine Gun Blue” trafigge l’anima e oltre. La nuova disposizione dei palchi permette di abbandonare già dopo gli Slowdive la zona “mainstream”. Nel “epicentro storico” del Parc The War On Drugs si attardano per problemi tecnici ma offrono una performance fortemente rievocativa. Forse l’ultima in un palco minore. Ciò permette di assistere alla prima apparizione di Dominick Fernow, uno e trino nei panni di se stesso, di Prurient e di Vatican Shadow nel claustrofobico delirio della boiler room. Nei panni di Prurient spara i colpi migliori, Vatican Shadow alle 4 è volere male allo stato di salute psico-fisica dello spettatore. Ma difficile chiedere di meglio. Tornando indietro, c’è spazio per la divertentissima performance dei Growlers, eroi vecchio stile del festival, con uno spirito rock’n’roll autentico quasi anacronistico rispetto al clima generale di diffuso contegno sui palchi. Roba da Black Lips degli albori, tra sbronze colossali documentate sui social nei 3 giorni di Primavera e groove garage spietati sul palco Vice. Spietati ma in un altro senso due nomi metal tra i più apprezzati dall’ascoltatore indie 2.0, gli americani Deafheaven e gli orrorifici svedesi Kvelertak farebbero inorridire il metallaro ortodosso, ma per i più eterodossi vanno più che bene. Gli Jesu un ulteriore compromesso verso il post-rock ma dai volumi sopra al livello di guardia. Le orecchie finalmente fischiano. The Haxan Cloak ha dato la spinta finale in un buco nero di sonorità più radicali che la line-up di questo venerdì offre con molto generosità. La scaletta del resto è serratissima nonostante la “vicinanza” dei palchi. I Darkside offrono forse lo spettacolo migliore della tre-giorni. Merito anche dell’arena Rayban sempre suggestiva come colpo d’occhio a qualsiasi ora del giorno. Dave Harrington e Nico Jaar rileggono il loro esordio “Psychic” in chiave jazz-club. Una classe incredibile per lo show su tutti gli show del Primavera 2014.

Oggi ce n’è per tutti i gusti, i Factory Floor ci accompagnano verso la notte inoltrata con le loro trame ossessive che annebbiano la vista. In un continuo rimescolamento di atmosfere e generi, c’è ancora tempo per un altro spettacolo sorprendentemente straripante. Tra le sorprese positive del festival, gli australiani Jagwar Ma prendono letteralmente a schiaffi la platea rayban con un travolgente mix di pop psichedelico, baggy beats e revival madchester. Sembrerebbe finita, ma si chiude con un’accoppiata strana tra gli irriducibili Wolf Eyes e le loro cacofonie e il clubbing di classe a cura dell’alfiere del French Touch Laurent Garnier, nell’arena principale, e il madrileno Pional nel solito delirio per ultimi sopravvissuti dello spazio Pitchfork.

sabato 31 maggio
Difficile superare livello e varietà del secondo giorno. Il pacco dato all’ultimo momento dall’assurdo progetto The Pizza Underground di Macaulay Culkin lascia delusi in molti, soprattutto coloro che hanno apprezzato e fomentato la catena di t-shirt a tema sulla scia del meme Culkin vs Ryan Gosling con t-shirt di ciò che resta, dopo anni di droghe, del protagonista di “Mamma ho perso l’aereo”.
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L’assenza di John Grant lascia tutti tranquilli anche se qualche rovescio passeggero non risparmia il nuovo progetto indie-pop di Katy Goodman delle Vivian Girls (ora La Sera che si presta a facili giochi di parole) e quello di Daniel degli Yuck che ha tagliato riccioli e riff da Teenage Fan Club per dare vita a Hebronix, sommesso e dimesso rock d’avanguardia dai tratti molto minimali e ambientali. I Jupiter Lion sono un gruppo spagnolo che funziona anche perché non solo non cantano in lingua madre, ma non cantano per nulla. E per un gruppo kraut rock che sa suonare le differenze geografiche contano poco. Anzi nulla. Un gigante come Jonathan Wilson dimostra comunque tutt’altro spessore confermandosi come uno dei songwriter più raffinati della sua generazione. Anche lui riesce ad adeguarsi ai grandi spazi della nuova zona “for the masses”, anche meglio dei Television che, per quanto bene si debba volere a Verlaine e soci, nella loro rivisitazione pezzo per pezzo di “Marquee Moon” regalano uno show vagamente soporifero e senile. Non ci si aspettava molto di più, basta rifarsi gli occhi per il cuore, il tantissimo cuore, quasi commovente dei Superchunk (vedi anche, più tardi, gli inossidabili The Dismemberment Plan). Un balzo negli anni Novanta che ci riavvicina al decennio successivo con la perfezione stilistica, schietta, semplice e media degli Spoon, altro gruppo americano che in Europa ha pochissima fortuna e solo al Primavera platee numericamente comparabili a quelle d’oltreoceano. Si fa a meno del bagno di folla di Caetano Veloso per assistere incuriositi allo show del ragazzo terribile di scuola Odd Future. Earl Sweatshirt ha talento da vendere, sul palco è quasi democristiano rispetto alle storie di irrequietezza adolescenziale cui ci ha abituato la crew dei giovani rapper californiani. Il live a luci spente del giorno è quello dei Godspeed You! Black Emperor. Una messa nera, asfissiante e pagana, che riesce a colpire anche in una location e a un orario non proprio ideali (prima serata e all’aperto).

Il Primavera è fatto di sbalzi estetici, stilistici, temporali incredibili. Così dopo si a vedere l’unico nome veramente esclusivo del Primavera tra mostri sacri del nuovo indie, ritorni e band medio-piccole in giro ovunque nei festival europei. La stella dell’hip hop internazionale che piace agli indie, Kendrick Lamar, per la prima volta al Primavera, non delude le attese. Band di neri a fare la legna, presenza scenica mai sopra le righe e un’ora di hit. I bassi e la base ritmica sono da megaraduno, a tratti da gigantesca dance hall. Il palco Heineken non si riempie subito del tutto. Si tratta di nuovo hip hop, in un festival di questa tradizione, non c’è troppo da stupirsi). Lui una vera macchina da guerra, senza irriverenza, con una presenza scenica da cantante più che da idolo della masse. Tra i momenti migliori del festival. E nemmeno i Nine Inch Nails, per alcuni “troppo” grossi per il Primavera, deludono le attese. Trent Reznor è l’ultimo degli highlander della sua generazione. Così come i suoi bicipiti appariscenti ormai più delle sue tenute. Anche i momenti elettronici continuano a testimoniare il loro imponente assedio sonoro. Un tuffo in scenari post-industriali demodé, ma che funziona ancora, anche grazie all’eredità lasciata da loro da molti seguaci ed emulatori che ne tiene vivo il mito. Si ritorna adolescenti e va bene così. Le ultime forze residue si prestano all’ultimo show pirotecnico da strizzatina d’occhio al festivalone inglese più mainstream che indie. I Foals hanno smesso di scrivere inni da dancefloor, ma il loro art-rock da grandi arene ha un impatto su cui c’è ben poco da ridere, un preludio perfetto alla festa finale dei Cut Copy che tra vecchio e nuovo riescono a ripercorrere un decennio e passa di hit indie che ci hanno fatto muovere il culo senza pietà alcuna. La giusta festa finale, per le ultissime energie c’è Daniel Avery, per i titoli di coda finali sull’ultimissima alba al Parc del Forum.