JOHN GRANT, “Pale Green Ghosts” (Bella Union, 2013)

john-grant-pale-green-ghostsLa sincerità prima di tutto. Il buon John Grant, già frontman dei sottovalutati The Czars, non è mai stato tipo da tanti giri di parole. A tre anni dal bellissimo debutto di “Queen of Denmark” il musicista statunitense si rifà vivo con “Pale Green Ghosts”, ed eccoci ancora una volta alle prese con lo spleen esistenziale di un autore che non ha paura di mostrare al pubblico il suo io più fragile ed indifeso. Sieropositività, alienazione, tormenti amorosi, ancora una volta John Grant tenta di esorcizzare i propri fantasmi personali trasformandoli in musica.

In “Pale Green Ghosts” la poetica dell’autore di Denver non presenta particolari variazioni rispetto all’album d’esordio, mentre è lo stile invece a subire una trasformazione piuttosto radicale. Se già in “Queen of Denemark” si poteva intuire un malcelato amore per il synth-pop ed alcune sonorità tipicamente eighties, nell’ultima fatica di Grant l’elettronica la fa da padrona, dando alle canzoni un taglio totalmente nuovo. Lunghe parti strumentali pregne di rotondi suoni sintetici (il primo paragone a saltare alla mente sono gli Ultravox) attraversano i singoli brani, dilatandone la struttura e modificandone l’impatto nei confronti dell’ascoltatore. Solo nel caso della title-track però questa nuova formula funziona a dovere. I synth freddi e meccanici accompagnano alla perfezione le liriche cupe e l’atmosfera sinistra del pezzo, mentre Grant racconta della propria difficile infanzia in una città di provincia. Purtroppo la costruzione vincente della prima traccia resta un episodio isolato e la scelta di puntare tutto su un sound ai confini dell’electro-dance si rivela, a parere di chi scrive, una mossa sbagliata. Non si sa se galeotta sia stata l’influenza delle recenti collaborazioni con Hercules and Love Affair o la mano di Biggi Veira dei Gus Gus in cabina di regia, fatto sta che la nuova veste musicale data alle canzoni appare innaturale, quasi artificiosa, finendo per appesantire non poco l’ascolto. Sia chiaro, il songwriting di John Grant raggiunge ancora dei picchi inavvicinabili per molti altri autori. Quando la vena cantautorale ed autobiografica dell’artista statunitense viene fuori in tutta la sua sincerità espressiva “Pale Green Ghosts” offre dei momenti ancora una volta commuoventi. L’accoppiata conclusiva formata da “I Hate This Town” e “Glacier” rinverdisce i fasti del disco precedente, confermando nuovamente come Grant esprima il meglio di sé quando è alle prese con struggenti ballad voce-pianoforte. Anche “GMF” convince appieno grazie ad un caldo chrooning, condito dalla solita amarezza e da una buona dose di black humor. Proprio in “GMF” fa capolino per la prima volta il backing vocals di Sinead O’Connor che, a dire il vero, non aggiunge molto al brano. I cori della cantante irlandese finiscono poi per sovraccaricare ulteriormente le già stucchevoli “It Doesent Matter to Him” e “Why Don’t Your Love Me Anymore”, mentre non spicca per particolare brillantezza neppure “You Don’t Have To”, che si aggiudica la palma di brano più soporifero del disco.

In generale è il cocktail Elton John più Human League a risultare davvero indigesto (pessime a questo proposito “Sensitive New Age Guy” e “Black Belt”), per una svolta sonora che più che una naturale evoluzione (come sbandierato da Grant nelle interviste) ha l’aria di un’eccessiva forzatura.
Non bastano quindi una manciata di buoni pezzi per risollevare le sorti di un album in cui tante, troppe canzoni sono destinati all’inesorabile skip. Conoscendo il grande valore di John Grant gli perdoniamo volentieri questo mezzo passo falso, sperando però che la prossima volta rinunci a tutta questa sovrabbondanza di synth per riprendere in mano il suo buon vecchio pianoforte.

57/100

(Stefano Solaro)

6 maggio 2013

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