LOCAL NATIVES, “Hummingbird” (Frenchkiss Records, 2013)

Non doveva arrivare OC per puntualizzare su quanto l’Orange County sia un posto di merda per fare musica. Per questo motivo e per molti altri i Local Natives dalla California sono andati a finire – che novità – a Brooklyn tra le mani di Aaron Dressner (The National). Prima che diventasse troppo tardi e di lì il passo sarebbe stato breve per trasformarsi nei compagni di festini di Ariel Pink a Silver Lake (un po’ un peccato per certi aspetti). Dressner li ha ospitati, li ha inseriti nella scena, ma non li ha trasformati del tutto in un gruppo adulto. Rispetto a “Gorilla Manor”, che Kalporz con orgoglio aveva segnalato prima dell’esplosione alla fine del 2009, i quattro bravi ragazzi ex-compagni di college lasciano perdere l’irrequietezza da Vampire Weekend sotto valium. Continuano a suonare più Fleet Foxes dei Fleet Foxes. I due brani che hanno introdotto “Hummingbird”, “Heavy Feet” e “Breakers” frullano Crosby, Stills, Nash e Young nella new wave. Il pathos da Grizzly Bear del coro, nella seconda, trasporta e trascina. Ma le chitarrine in levare che movimentavano l’ascolto sono molto limitate. I due singoli hanno illuso in questo senso, perché solo in “Wooly Mammoth” arrivano le sferzate vere.

Le voci di Rice, Ayer e Hahn non saranno quelle dei Fleet Foxes o dei sopra citati mostri sacri, ma giocano a meraviglie tra le trame di chitarra. Meglio nei momenti in cui l’enfasi cresce. Quando non succede, finisce male, malissimo. Esempio su tutti “Three Months” che parte con un’intensità degna dei vicini di casa The Antlers ma scivola in un’inspiegabile falsetto stracciapalle dal retrogusto “islandese”. Nessun dramma perché è l’unico momento buio, perché il songwriting dei Local Natives è caldo, caldissimo. Dall’apertura nel loro stile, “You & I”, a imprevedibili squarci pseudo-soul à la Jeff Buckley (“Colombia”, “Black Spot”). La botta da Fleet Foxes non svanisce mai, con meno chitarre ruspanti (relegate all’intro di “Mt Washington”) e molto pianoforte. Nelle armonie più complesse come “Ceilings” riemerge tutto il talento di quelle che avevamo definito “le volpi grizzly di Orange County” prima che si cresceressero i baffi (ora le barbe sarebbero più credibili e più hipster). Potranno risultare monotoni, ma se prendessero la strada del pezzo di chiusura, “Bowery”, l’unica che mantiene in primo piano gli spunti moderni e originali negli arrangiamenti, avremmo davanti il gruppo più promettente dei prossimi dieci anni. Nel frattempo, un disco di belle canzoni, uniforme ed equilibrato.

Che sia stato partorito a Silver Lake o in un loft di Brooklyn, sono solo manifestazioni dei tempi che corrono quanto le canotte e il baffo cool. Anche perché pare che Dressner si sia proposto ai ragazzi come co-produttore completamente sbronzo: fare dietrologie insomma è assolutamente inutile.

77/100

(Piero Merola)

19 Gennaio 2013

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