THE PAINS OF BEING PURE AT HEART, “Belong” (Slumberland Records, 2011)

I Pains Of Being Pure At Heart sembrano davvero un gruppo fuori dalle mode del momento. Se infatti con il primo disco erano stati inseriti, forse troppo precipitosamente, da una certa parte della critica in quel filone di shoegaze revival comparso sulle scene negli ultimi due anni, con il loro secondo attesissimo disco personalizzano ancora di più il loro suono.

“Belong”, questo il titolo dell’album, deve parecchio anche al suo produttore. La band americana ha scelto per la cabina di regia, suscitando forse qualche iniziale perplessità, un personaggio ingombrante come Flood, che tra i tanti pregi non ha certo quello di essere adatto a un sound indipendente. A questo si aggiunga la prestigiosa presenza di Alan Moulder in fase di mixaggio. A giudicare dal risultato però mai scelta fu più azzeccata. I Pains of being Pure at heart tornano sulle scene forti di un disco che si differenza dal suo predecessore soprattutto nelle sonorità, ma senza per questo perdere niente in freschezza e fruibilità. I dieci brani che compongono “Belong” possono anche vantare una certa varietà di atmosfere. Si va da quelle shoegaze e sognanti della title track per arrivare ai ritmi più sostenuti e accattivanti di “Heart in you heartbreak” e “Heaven’s gonna happen now”. Ed è forse proprio la sezione ritmica quella in cui si sente maggiormente l’apporto di Flood. In generale comunque il sound appare molto più “asciugato” e scarno rispetto a quello fumoso e saturo di tanti brani del primo disco. Peraltro l’anima che la band ha sempre avuto fin dai suoi esordi è stata pop e in questo secondo lavoro viene messa a nudo ed esposta senza timori.

La pulizia sonora che si sente nella mezz’ora di musica non toglie fascino, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, alla musica dei Pains Of Being Pure At Heart ma ne esalta invece le qualità melodiche. Altri momenti da ricordare di questo album sono per esempio “My terrible friends”, con le tastiere che rimandano ai Cure meno introspettivi e fanno da contraltare alla voce quasi sussurrata di Kip Berman. “Girl of 1000 dreams” è forse uno dei momenti più rock del disco, in cui le chitarre fanno la parte del leone ed arriva come un vero e proprio concentrato di emozioni. Il quintetto newyorchese supera la boa del secondo disco con pieno merito, riuscendo a cambiare il proprio suono senza snaturarlo.

77/100

(Francesco Melis)

Collegamenti su Kalporz:
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12 maggio 2011

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