WHITE RABBITS, It’s Frightening (TBD, 2009)

L’indierock americano non è affatto morto, come tutte le altre cose bisogna solo sapere dove andare a cercarlo. E non è detto che si debba per forza essere dei poco convinti emuli di Modest Mouse o Built To Spill per continuare ad ampliare il discorso di quella che ormai è diventata, a ben vedere e quasi suo malgrado, una “tradizione”. I White Rabbits sono ad esempio un gruppo quintessenzialmente “indie”, newyorchese d’adozione, attivo dal 2004 e con un disco d’esordio di cui, fra tanta concorrenza sgomitante, quasi nessuno conserva memoria (“Fort Nightly”, del 2007). Il loro nuovo album “It’s Frightening” esce ora e vanta la produzione di uno degli “autori” americani preferiti del sottoscritto, il sottovalutatissimo Britt Daniel degli altrettanto sottovalutati Spoon (che fanno il paio con i Walkmen, per quantità di consensi meritati e rigorosamente non ricevuti, salvo i soliti quattro gatti illuminati da un dio bonario).

Scorrendo l’organico del gruppo si nota subito, al di là dei prevedibili chitarra e basso, la presenza di ben due batteristi (con ricco contorno di percussioni) e di un pianoforte, e proprio a partire da quest’inusuale assortimento strumentistico si può forse iniziare a comprendere appieno la natura e il peso specifico dell’offerta musicale di questo sestetto newyorchese. Che sa suonare un po’ di tutto, all’occorrenza, ma che senz’altro dà il meglio di sé in una serie di composizioni in cui trame ritmiche dall’acre retrogusto afrocaraibico si intrecciano a meraviglia con acide frustate di chitarra wave, tanto da far sembrare questo gruppo una sorta di meta-Radiohead tribaleggianti che rivisitano il canzoniere degli Specials, finendo col somigliare quasi ad una versione underground incattivita dei Vampire Weekend o ai Coldplay che jammano in maniera forsennata e selvaggia (potrà mai accadere al di fuori di un’improbabile fantasia finto-letteraria?) con la cricca Antibalas.

Ma i pezzi “ci sono” per davvero e la band mostra di possedere potenzialità inventive più che concrete e reali. Il singolo “Percussion Gun” onora la sua combattiva titolazione e si produce in una spirale percussiva di ritmi storditi che si lacera in un ritornello tagliente e viscerale, e lo stesso fanno il blues funk terzomondista di “Right Where They Left”, il delirio afro-dionisiaco di “Lionesse” o la bossa post-punk espressionista di “They Done Wrong/ We Done Wrong”, ma non mancano nemmeno gli episodi dal piglio più intimista e genuinamente cantautorale, come “Company I Keep”, “Midnight And I” (da antologia!) o “Lady Vanishes” che ci ricordano come, in fondo, non si smetta mai davvero di essere americani.

Nel complesso la giungla newyorchese, per quanto caotica e ferocemente selettiva, si dimostra per l’ennesima volta (come se ce ne fosse davvero il bisogno…) terreno di caccia particolarmente fecondo per incursioni spericolate nel meticciato sonoro e nella contaminazione rigogliosa e promiscua di linguaggi e storie lontani. Resta sul piatto, al di là della noia accademicamente ripetitiva delle nostre considerazioni socio-antropologiche da bar, la verità e l’urgenza di una band che è già molto più di una promessa (cosa non da poco, converrete). Ne sentiremo parlare.

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