GOMEZ, A New Tide (EatSleep, 2009)

“Come ti costruisco il disco pop rock perfetto nel tempo di trenta minuti e senza nemmeno tirare scemo il povero ascoltatore.”: un vecchio giochino ormai in disuso nel quale i Gomez sono sempre stati dei piccoli campioni, e poco ci è mancato che i dieci anni trascorsi dall’ottimo esordio “Bring it On” e una produzione successiva man mano più sbiadita non ce lo facessero dimenticare. Fortuna che quella “nuova marea” cui dedicano il loro ultimo titolo gli ha detto bene e, anzi, pare averli riportati a riva nella loro forma migliore.

Se lo sguardo della band rimane rivolto oltreoceano, la mano è inequivocabilmente quella di chi tiene cittadinanza a Liverpool: per i migliaia di accorgimenti che ogni nuovo brano colleziona, per lo spessore della loro fattura e soprattutto per quell’innata capacità di risolvere il complesso in semplice senza mai perdersi nulla per strada… Si pensi al giro di basso – tutt’altro che scontato – che regge un brano pur così chorus-oriented come “If I ask you Nicely”. Oppure a quella dichiarazione d’intenti fin dal nome che è l’inaugurale “Mix”. Anche quando più audaci, gli accostamenti tra dinamiche ritmiche e dispiegamenti melodici non sono mai vezzi fini a se stessi, ma sofisticati congegni che lavorano sottopelle per una lunga conservazione del disco all’interno del vostro stereo. Produce, non a caso, Brian Deck, colui che fece sì che “Shepherd’s Dog” divenisse qualcosa di più di un “altro disco per voce e chitarra” (e il sound di “Win Park Slope” potrebbe entrare a buon diritto nell’ultima produzione degli Iron & Wine).

Dai trentadue minuti di un lotto di durata vinilica si menziona ancora con piacere l’atipica cover del gruppo noiser Red Red Meat, “Airstream Driver”, non foss’altro per lo strano modus operandi che l’ha portata alla luce: “Una notte Ian è stato sveglio a costruire la linea melodica per un pezzo, che una volta ultimato, era senza parole. Qualche giorno dopo navigando in rete si è imbattuto nel titolo Airstream Diver: incuriosito, ha cercato le liriche e l’ha ascoltata. Non avevamo idea di cosa fosse la qual cosa ci ha aiutato a riproporla in modo naturale” Così lavorano i Gomez, costruendo forme nuove per idee già collaudate: un segreto tradito anche dal finale “in salita” di “Sunset gates”, che solleva il velo di maja su un apocalittico sax stoogesiano, a mostrare la profonda natura dionisiaca di un disco che è “facile” solo all’apparenza.

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