Neapolis Carpisa Festival, 16 luglio 2009

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Seconda giornata al Neapolis che si preannuncia molto internazionale e dance. Gli unici italiani a suonare saranno i Motel Connection, ma cantano in inglese, quindi… Appena arrivato ho solo il tempo di accostarmi al palco che la band di Juliette Lewis ha già dato inizio alle danze con il suo rock’n roll fresco e modaiolo. Lei arriva vestita come una David Bowie in tenuta da ginnastica aerobica: tutina nera luccicante e piume di struzzo sulle spalle. Questa donna è fatta solo di nervi e adrenalina. Il suo nuovo progetto Juliette Lewis &The Romantiques è davvero tosto. I pochi presenti si lasciano coinvolgere con piacere dai punk’n roll della cantante americana. I pezzi vecchi dei The Licks funzionano ancora: “Get Up”, la potentissima “Hot Kiss”, “Purgatory Blues”, il rock’ n roll marziale e ballabile di “You’re Speacking My Leanguage” e il super singolo “Got love to Kill”con il suo fastidiosissimo e ipnotico ritornello che fa: “Hei hei oh oh oh”. I nuovi pezzi non sono male e presentano una maggiore cura per gli arrangiamenti e le melodie. Juliette ha una voce ruvida che sa infiammare il pubblico e un pezzo come “Terra incognita” è davvero un buon biglietto da visita. Solo che dopo quattro o cinque pezzi la sua musica inizia a essere stucchevole. Riesce a riconquistare un po’ la mia attenzione con un lungo blues ledzeppeliano, davvero ben suonato.

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La gente è ancora poca. Ieri la mostra ha cominciato a essere affollata dopo le 10 e penso che anche stasera sarà così. Per ora ci sono soprattutto ragazzi. Prendo il mio drink e vado sparato verso il buttafuori per entrare nel backstage. Niente da fare. Oggi non si passa: non ci sono santi. Il ragazzo palestrato mi dice che posso avere la F, la V, tutte le lettere dell’alfabeto, ma stasera non si può proprio valicare la transenna. Mannaccia! Il sole collassa in un tramonto rosso e Juliette Lewis abbandona il palco. Mi siedo tra i giovani punk con la cresta su un praticello a godermi un po’ di fresco. Poi arrivano i Motel Connection del presenzialista Samuel. Sono accolti (inspiegabilmente) molto bene dal pubblico. Resto seduto dove sono. Un ragazzino fa un sistema ad elle, un altro un cruciverba! Assurdo!

Intanto i Motel Connection mi tediano con i loro groove rubati qua e là e il loro inglese imbarazzante. La gente balla e applaude e non si capisce il motivo, nel tempo fatto di attimi e settimane enigmistiche. Parte il beat sputtanatissimo di “Two“ e Napoli si lascia trasportare dalle sue velleità dance. Tutti ballano spalle al palco, come in discoteca. Samuel fa finta di suonare la chitarra, Pierfunk invece suona davvero e bene. La cassa è al massimo. C’è una rasta al nono mese di gravidanza che balla come un’indemoniata. Se Lamarck ha ragione e il feto sopravviverà a questo stress nascerà con i dreadlocks e dipendente dalla ketamina. Poi parte l’eco-duftpunkiano di “H.e.r.o.i.n.”, la title track del nuovo album, beat robusto e melodia malinconica. Poi rifanno i Mùm remixati da Cludio Coccoluto in “Predominant” e i Chemical Brothers da quattro soldi in “Sparkles”, ma c’è da dire che sanno come conquistare il pubblico e per l’atmosfera della serata sono perfetti. “Muzik” e “Give me a good reason to weak up” convogliano il pubblico al finale di “All Over”. Questi Motel Connection sono un po’ ripetitivi, ma a quanto vedo piacciono. Personalmente mi sono annoiato a morte. Aspettiamo i Prodigy, sperando che gli americani !!! non mi distruggano ulteriormente. Durante la pausa mi trattengo un po’ con degli amici e spulcio tra i vinili in cerca di qualche affare. Ma, come si dice in questi casi, I can’t get no satisfaction.

Ecco sul palco i !!!: Il cantante in bermuda saluta Napoli e spiega la corretta pronuncia del nome del gruppo. Si dice C-hk C-hk C-hk. Gli americani invadono il palco (con la loro musica e il loro numero) con una miscela di sonorità dance, brit pop, techno e nu-funky. Probabilmente questo sound era fresco e innovativo due o tre anni fa e oggi non fa più tanto effetto. La cassa pompa, la chitarrina è nera e nervosa e il cantante Nic Offer ci sa fare, nonostante sia conciato come un americano in gita a Pompei. Ma la performance da ragione a loro, dance-punk ed il pubblico balla. “Must be The Moon” viene riconosciuta e acclamata dal pubblico e il suo incidere ossessivo trascina le menti e le gambe in un’inquieta danza. Molta di questa frenesia però, sono convinto, è imputabile all’attesa: tutti sono già proiettati a ciò che succederà quando abbandoneranno il palco. Nei momenti migliori ricordano una cover band un po’ tamarra dei Television, nei peggiori una versione arrogante dei Rapture. È questione di un’altra mezz’oretta di schitarrate funky e interferenze di sax incerti e gli !!! salutano il pubblico napoletano.

Dalle casse esce fuori una selezione di techno trance inizio anni 2000 che delizia il pubblico: ravers, punk a bestia, metallari, universitari intellettualoidi, discotecari, veline, tossici, security, protezione civile e poveri cristi tutti a ballare sotto il palco vuoto i beat acidi e malati che sonorizzano la notte. Intanto i tecnici montano una tastiera infinita, che neanche l’astronave di Star Track… Poi due secondi di silenzio inesorabilmente spezzato dal boato del pubblico. Maxim esce dall’oscurità come tutto vestito di pelle nera e incazzato. Grida “Hey my people! Fucking Neapolitans!”; entrano Liam, Keith, il batterista e il chitarrista. Parte “World’s on fire” e non si capisce più un cazzo! La mostra d’oltremare in un attimo si trasforma in una bolgia dantesca pronta a festeggiare l’esplosione di violenza rituale e digitale dei Prodigy. Keith, vestito in camicia bianca e cravatta inizia a fare il suo solito show: urla, salta, incita il pubblico, sputa, sbava, e via dicendo. Il secondo pezzo è “Omen”: synth ipnotico e beat molto anni ’90, una bomba che fa esplodere il pubblico in un’estasi incontrollata. Subito dopo parte il riff di chitarra di “Breath” e chi non l’aveva ancora capito comprende che stanotte si fa sul serio. Ho una certa età e non volevo pogare, ma essendo tra le prime file vengo coinvolto. I ragazzini ci vanno giù pesante, ma ho un passato molto punk e se ne accorgono a loro spese. Maxim si sporge tra il pubblico per ricevere energia e parte con una tesissima “Poison”. Paradossalmente i Prodgy sono il gruppo più rock della serata e batterista e chitarrista ci danno dentro sostenendo i due frontmen che si divino il palco senza mai calpestarsi i piedi. Il concerto è un crescendo di intensità. Liam è nascosto dietro il muro di tastiere e computers e crea (che intanto potrebbe pure chattare su Facebook, senza che nessuno se ne accorga) beat micidiali. “Outer space” esalta gli animi, “Firestarter” li infiamma! Keith trasforma il pezzo in un punk devastante inserendo qualche passaggio dell’intramontabile “Action Radar”. L’acustica fa un po’ schifo e le casse non reggono la potenza dei bassi, ma chi se ne frega. Dobbiamo ballare “Voodoo people” e incitare Maxim che fa un incontro di boxe contro il suo monitor di ritorno: non abbiamo mica il tempo per formalizzarci su questioni tecniche… Proprio mentre qualcuno accanto a me sviene e la gente grida “Portatelo all’ospedale”, parte “Take me to the hospital”, roba da matti! Ho capito come funziona: se uno pensa che qui ci sono un sacco di puttanelle da prendere a schiaffi ecco che matematicamente “Smack my bitch up” e vi giuro che parte davvero! il pogo investe le 10000 o più persone presenti a Napoli. A metà pezzo Maxim invita tutto il pubblico a sedersi: “Sit down! My people sit down! Do it for me!”. Come si fa a dirgli di no? Poi quando è il momento di saltare grida “Uppppp…!”. E si riparte con “Smack my bitch up”. Ancora Maxim gestisce il palco con il rap spettrale di “Diesel power”. Seguono la prepotente “Warrior’s dance”, cupa e magnetica più che su disco, e la dirompente “Run with the wolves” con la quale abbandonano il palco. Pochi minuti di attesa ed eccoli ricomparire con un forsennato mix finale di “Omen reprise”-“Invaders must die”-“Stand up”. Napoli boccheggia, è appena l’una, ma sembrano le sei di mattina. I Prodigy hanno mantenuto la promessa lanciata nel primo pezzo di bruciare Napoli: la loro musica diretta, tamarra, ostentata, vigorosa e ignea bene si accorda alla natura vulcanica della gente napoletana. Hanno scelto di suonare con un set minimale e scarno e, così, avvolti dal buio, hanno saputo imporsi con la sola potenza della loro musica. Avvelenato e drogato dalla furia digitale del gruppo di Braintree, il pubblico si dirige verso l’uscita. È stato un bel Neapolis. Guardo il palco vuoto e mi perdo in certe considerazioni sull’importanza della poetica anche in contesto pop. I Prodigy hanno un loro perché e non passano indifferenti. Liam è un buon produttore, Maxim e Keith sanno vendersi al pubblico e fare casino. La loro musica è spesso cafona e settaria. Ma quella sintesi di violenza cui sono pervenuti ha ormai senso storico ed estetico. Una specie di miracolo di cui potranno campare di rendita per ancora molti anni.

(Giuseppe Franza)