BOB DYLAN, Together Through Life (Columbia, 2009)

“together through life” non è solo una (ennesima) citazione di Walt Whitman. E’ anche una promessa paramatrimoniale, di quelle che Bob Dylan avrebbe potuto fare al suo uditorio quand’era giovane e “freewheelin’”, se già allora non fosse stato troppo naive per impegnarsi in progetti a lungo termine. Così la fa oggi, che ha di gran lunga passato i sessanta e che di dischi ne rilascia, quando gira bene, uno ogni tre-quattro anni. L’ultima volta che lo avevamo visto in giro – “Basement Tapes” e varie celebrazioni a parte – risale al 2006, quando aveva voluto chiudere il cerchio con quei “Times they are a-changin’” che ancora gli gravavano sulla testa dando al nuovo album un titolo come “Modern Times”. Ma bluffava: i suoi tempi interiori erano gli unici ad essere veramente cambiati, mentre quelli che pretendeva di raccontarci ora tutto erano fuorchè “moderni”, tanto che per oltre settanta minuti il disco rimasticava un unico rhythm & blues vecchio come il cucco.

Rispetto al suo fratello maggiore, “Together Through Life” vanta una mano meno sbrigativa sull’(auto)produzione e sugli arrangiamenti, nonché un ensemble di musicisti forse tra i più brillanti che la backline dylaniana abbia mai annoverato: solo per menzionarne due, l’ex chitarrista degli Heartbreakers Mike Campbell e David Hidalgo dei Los Lobos alla fisarmonica. Lo strapotere del suo strumento (così francais quando si intreccia al violino di “This Dream Of You”) va a sostituire addirittura le prestazioni del beneamato organo e costituisce una delle poche novità assolute in termini di sound. L’altra è la stessa voce di Dylan, arrugginita ai limiti dell’irriconoscibile: “A volte sono come abitato dall’eco della voce di Louis Armstrong.. Non so se il mio modo di cantare si ispiri più al suo timbro di voce sabbioso o a quello della sua tromba quando sembra sussurrare un segreto all’orecchio”

Più che a quella di Armstrong, di Howlin Wolf o di chi per loro, la raucedine di sua Bobbità assomiglia ad un ennesimo camuffamento, un modo come un altro per nascondersi dal proprio status storico. Le canzoni di “Together through Life” si smarcano dall’ingombrante marchio del loro autore e vanno a fondersi con il repertorio di Willie Dixon o con un migliaio di altri standard del genere: non chiedono altro che un posticino in semianonimato là dove i cambiamenti del tempo hanno perso d’importanza da un bel po’, ovvero sotto lo scaffale di Root music, in mezzo ad un disco di John Lee Hooker e una raccolta della Chess Records. Difficile negarlielo: ballate cadenzate come “Forgetful heart” e blues della fatta di “Jolene” sono sempre stati suonati e sempre lo saranno, a prescindere da chi li scrive. Dietro a questi nuovi pezzi Dylan sembra quasi non esserci e quindi, conseguentemente, c’è, eccome. Il travestimento è riuscito ancora una volta, al punto che quando il nostro masked & anonymous viene a cantarci “I fell a Change comin’ on” verrebbe voglia di cascarci. Un’altra volta.

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